di
Fabrizio Zupo
Il vincitore del Water Prize in mischia: «La touche rubata agli All Blacks e quei mitici derby con Rovigo. Fare lo scienziato era il piano B»
Veneziano doc ma Padova nel destino tra scienza, sport e famiglia fra loro intrecciati. Tre ambiti che sono sovrapponibili se, negli anni ’70 ti laurei in ingegneria al Bo con lode, giochi a rugby nel Petrarca del record di scudetti e la tua futura moglie è la sorella di un compagno di mischia, per la quale abbandoni il «terzo tempo» con gli All Blacks per andare a regalarle la spilletta, la felce d’argento, appena scambiata al banchetto dai Veneziani di Nereo in Prato («Caterina — ricorda — abitava a pochi passi») ovvero noto come il «Sotoportego dei scudetti». E con Caterina Putti poi, accademica (medicina), tiri su tre figli pure loro in carriera: Daniele (docente a Exeter e musicista), Carlotta (al Bo) e Tobia (Berkeley). Andrea Rinaldo, classe 1954, cresce nell’ambito sportivo (e non solo) cullato al Tre Pini e poi alla Guizza da Memo Geremia dove, ad esempio, trovi un luminare universitario come Michele Arslan, rugbista prima e presidente del Petrarca poi. Il club dei Gesuiti impasta gran dottori e operai. Professore emerito al Bo, Rinaldo arriva tardi al rugby: giocatore (tre scudetti vinti), Azzurro, Doge, presidente del club, per 25 anni consigliere e «ministro degli esteri» della Fir, rappresentante nell’Epcr (la Uefa ovale, per capirsi). È stato anche candidato alla presidenza di World Rugby, cioè il governo planetario del rugby, sia nella sua versione classica a 15 che a 7. Quando il ginocchio sinistro cede, a 23 anni, finisce il sogno. Ci prova, si opera, torna in campo (nella stagione 1979-80 arriva anche il terzo tricolore con coach Dolfin), ma la gamba balla e col secondo «crac» ai crociati è l’addio. Inizia la carriera accademica sintetizzata oggi in 27 pagine di curriculum. Dal dottorato alla Purdue in Indiana, all’insegnamento e alla ricerca al Mit di Boston e per 10 anni a Princeton, la docenza a Trento e al Bo (ordinario di costruzioni idrauliche sulla cattedra del suo ex professore Claudio Datei). È prof emerito all’ Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna. Ed è presidente dal 2021 dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia. Che cosa resta fuori? Il Water Prize, il Nobel dell’acqua consegnatogli nel 2023, a Stoccolma, da re Carlo XVI Gustavo.
Professor Rinaldo, il rugby quando lo incontra?
«Tardi. Dopo l’atletica a Sant’Elena e il basket alla Virtus Murano. Ho marcato Villalta a Mestre».
E poi?
«Sono andato a provare il rugby al Lido, al Cus Venezia, in fondo alle Terre Perse. Un viaggio, con il vaporetto o la motonave se c’era nebbia e poi il bus».
L’esordio?
«Martedì primo allenamento, sabato Vittorio Pepe mi butta in campo con gli Under 18. La settimana dopo esordio in serie B».
Così, senza conoscere il gioco?
«Sono 1,90 e saltavo alto in touche (ai tempi era vietato «l’ascensore», ndr) nessuno mi rubava palla. Mi spiegarono quattro acche: spingi quando sei in mischia e fuori fai quello che vuoi. Ero disciplinato, sarei stato un buon professionista. Ci fosse stato ai tempi non avrei fatto il dottorato all’università. Ero numero 4 (il 5 allora era il più grosso, a puntellare il pilone destro) per una dissimetria alle spalle. Giocavo con Cristiano Zennaro (padre di Marco, l’imprenditore detenuto un anno in Sudan)».
Quindi arriva a Padova: serie A, i Dogi, quattro cap in Nazionale e la chicca del XV del Presidente.
«All’ultima partita di Serie B mi viene ad osservare Roberto Ragazzi (giocatore e noto radiologo), spedito dal Petrarca. Poi, con mio padre, andiamo a parlare con Memo Geremia».
Nel 1973 va al Petrarca che aveva vinto quattro scudetti di fila: ha 19 anni.
«Trovo Fronda in panchina. Vinciamo il quinto scudetto della serie. Nel 1973 faccio pure il Fira Under 20 arrivando in semifinale e il tour in Galles da capitano».
Arriva il 1977: il rugby vive un boom e sta stretto al Tre Pini. Si va all’ Appiani: sono 18mila gli spettatori dell’aggancio al Rovigo, che porta allo spareggio giocato a Udine e vinto 10-9.
«A Rovigo ci dileggiavano perché a Natale, dopo un derby sospeso per nebbia, ci ritrovammo con un gruppo reduce da vacanze in montagna e si perse. I signori, dicevano, ma eravamo più forti. Io avevo una sfida personale con Dirk Naudé, il più forte Seconda linea contro cui (e con cui) ho giocato».
Il derby era «la» partita?
«Certo. Rovigo era la sfida. In Serie A ci teneva testa la mischia del Brescia e si andava con il cappello in mano a L’Aquila. Stop. Se si vinceva a Rovigo era magico. Ricordo Geremia, dal telefono degli spogliatoi, chiamare la tribuna del Battaglini, far squillare finché il custode Bepi Zuin (ex giocatore, padre dell’azzurro Loredano) non alzava la cornetta e chiedere “Me scusa, cossa gao fatto el Rovigo oggi?”. E Zuin, riconoscendolo, gridava “Geremiaaa”. Bellissimo…».
Ad ottobre gli All Blacks, prima storica Haka all’Appiani. L’Italia passa da Romania, Marocco e Francia B ai più forti. Ma tiene 17-9 (6-6 il primo tempo).
«Chiedono un warm up verso il tour in Francia. La Fir inserisce tre stranieri (Pardiès, Babrow e Naudé) fra gli Azzurri usando la formula XV del Presidente. Ci allenano Lolli Busson e Carwyn James (il guru gallese aveva battuto gli All Blacks con i Lions e con i Barbarians). Preparò il discorso una settimana. A me disse “Sei più rapido e salti più alto, non te la possono prendere”».
C’era la consapevolezza dell’evento?
«Sì. Abbiamo sputato un polmone per stare alla loro velocità, correvamo il triplo. Il fiatone è rimasto per mezzora dopo la fine della partita. Il Times scrisse che per l’Italia era “The come of the age” l’arrivo della maturità».
Doppio infortunio. Finisce il gioco e inizia il Rinaldo professore.
«Fare lo scienziato era il piano B, mio padre non me l’ha mai perdonato. Mi voleva nello studio di famiglia. Dissi che andavo in America sei mesi, divenni ricercatore».
Il rugby in breve?
«Vince sempre il migliore. È la conseguenza del lavoro che ci metti dentro. Niente scorciatoie: “practice makes perfect”».
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27 agosto 2025
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