di
Danilo Taino

Due democrazie amiche e con interessi in comune incrociano le sciabole. Così il primo ministro indiano Modi affronta verso l’avversario strategico Trump: dopo 7 anni, andrà a Pechino per incontrare il ministro degli Esteri cinese

È lo scontro tra le due maggiori democrazie. Traballanti, certo: quella americana sotto lo stress chiamato Donald Trump, quella indiana messa alla prova dal nazionalismo semireligioso di Narendra Modi. Fatto sta che l’uomo forte di Washington e l’uomo forte di Delhi sono al braccio di ferro, forse il più curioso e autolesionista degli ultimi tempi. Trump ha prima imposto dazi del 25% sulle esportazioni indiane perché le tariffe sull’import applicate da Delhi sono alte. Poi ha aggiunto un altro 25% perché l’India compra petrolio russo a mani basse da quando Mosca ha invaso l’Ucraina. Totale, 50%: un disastro per l’economia indiana. Modi per il momento resiste, snobba il presidente americano e diventa il leader mondiale in prima linea contro l’unilateralismo di Trump: orgoglio e nazionalismo indiani contro arroganza e nazionalismo della Casa Bianca.

India, la terza economia mondiale?

Modi, al suo terzo mandato, è primo ministro da oltre dieci anni e nella politica indiana ha scolpito la sua figura come padre della nazione indù, difensore del Paese senza cedimenti, creatore di benessere. Umili origini, come gran parte degli indiani, devoto alle divinità induiste, come più di un miliardo di connazionali, mezzo pragmatico e mezzo mistico, punta a fare del suo Paese una superpotenza: primo obiettivo, diventare entro la fine del decennio – forse già nel 2028 secondo la banca americana Morgan Stanley – la terza economia del mondo per dimensioni, dietro a Stati Uniti e Cina. Ha lanciato lo slogan Make in India al fine di attrarre investimenti dal resto del mondo. Il Paese ha bisogno di crescere nella manifattura se vuole creare posti di lavoro per i sette-otto milioni di giovani che ogni anno entrano nel mercato del lavoro. I dazi di Trump possono frenare seriamente la traiettoria.



















































Un’amicizia strategica

Se ciò che un’azienda produce in India è poi gravato da una “tassa” del 50% quando il prodotto viene esportato in America, è improbabile che qualcuno voglia aprire negozio nel Paese. L’opportunità del momento, cioè la ricerca di alternative agli investimenti in Cina da parte di molte multinazionali, rischia di svanire del tutto. L’uso politico, oltre che commerciale, dei dazi da parte di Trump è ovviamente la ragione immediata della tensione tra Washington e Delhi, dopo che da inizio secolo i rapporti sono via via migliorati fino al livello di amicizia strategica. Non si può però dire che la politica indiana, Modi in testa, non abbia le sue responsabilità.
L’India conduce da sempre una politica estera che rifiuta di allinearsi a qualsiasi blocco di potere: amicizie sì, collaborazioni sì, alleanze no. È così – corre la teoria – che deve fare una grande potenza: interesse nazionale davanti a tutto. Per esempio, se c’è l’opportunità di comprare petrolio russo a prezzi bassi perché Mosca sotto sanzioni non lo vende più all’Europa, lo si compra, l’Ucraina è affare degli occidentali. Chiara sottovalutazione della questione, con conseguenze. Più un corollario probabilmente non insignificante.

Il sostenitore di Modi

Uno dei sostenitori più potenti di Modi è Mukesh Ambani, l’uomo più ricco d’India, proprietario del gruppo Reliance che tra le altre cose possiede una delle maggiori raffinerie del pianeta. Bene: prima dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, Reliance comprava dalla Russia meno del 3% del greggio che le serviva, nei primi sei mesi del 2025 è salito a più del 50%, con margini di profitto splendidi. Ora, non si può affermare che Modi voglia scontrarsi con Trump per fare un favore ad Ambani ma non si può escludere che l’imprenditore faccia sapere al governo quanto è contento della situazione. Casa Bianca irritata: il consigliere commerciale di Trump, Peter Navarro, sostiene che l’India è “la lavanderia a gettoni” del Cremlino.

L’incontro in Cina

Fatto sta che due democrazie amiche e con molti interessi in comune oggi incrociano le sciabole. Di fronte ai dazi, Modi non ha solo fatto sapere di non avere intenzione di cedere. Ha anche mosso passi verso l’avversario strategico degli Stati Uniti, la Cina. Il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi è appena stato a Delhi e lo stesso Modi sarà in Cina il 31 agosto e il 1° settembre: non ci metteva piede da sette anni. Nel corso della conferenza della Shanghai Cooperation Organisation – un forum di totale ispirazione cinese – incontrerà Xi Jinping e probabilmente lo stesso Putin.

L’influenza asiatica

L’avvicinamento tra Pechino e Delhi non è strategico: tra i due Paesi la rivalità è storica e l’India vuole limitare l’influenza cinese in Asia. È però un calcio negli stinchi a Trump. Il quale, per quanto possa avere delle ragioni nel caso in questione, sta consapevolmente allontanando da sé gli amici e le democrazie, in Asia come in Europa.
La resistenza di Narendra Modi è il grande test che farà capire molto del futuro dell’America nell’Indo-Pacifico oltre che delle prospettive dell’economia indiana. Per ora, il braccio di ferro lo vincono Xi Jinping e Putin, senza nemmeno arrotolarsi la manica.

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27 agosto 2025