Ci sono libri capaci di raccontare mondi, ma che non li inventano, e per questa ragione sono ancor di più necessari. È il caso di Cartella clinica di Serena Vitale, un romanzo breve uscito da poco per Sellerio, in cui l’autrice scrive per dar voce a una vicenda che le appartiene e che, al contempo, serve sapere. In casi come questi la letteratura si fa testimonianza.
La storia è quella di Rossana Vitale, sua sorella, ricoverata nel 1960 nella Casa di cura Villa Verde di Lecce “per esauriti mentali” – (sic!) chiosa l’autrice –, e trasferita poi all’Ospedale psichiatrico provinciale S. Maria della Pietà a Roma, nella sezione femminile.
Il racconto è una vera e propria “cartella clinica” nella misura in cui l’autrice attinge evidentemente da quella vera (riportata anche in una fotografia, insieme a fotografie d’altro) e ricostruisce un’esistenza e il suo possibile senso (o forse bisognerebbe meglio dire esito), attraverso le parole che altri hanno vergato per lei su di lei.
La forza di quelle frasi è tanto maggiore quanto più sono scarne.
Ha una matricola, Rossana. La 31586. Nel foglio di accettazione si legge: “in volto eccitata, ostile”. Ne hanno segnato la data di nascita, il luogo, il giorno dell’ammissione, la diagnosi. La data del decesso.
L’autrice non teme spoiler: lo racconta immediatamente cos’è successo, usando le parole della Storia, cioè quelle dell’istituzione che la avrebbe dovuta guarire (contenere?) e invece la ha vista morire “senza prodromi”.
“Vitale Rossana, fu Alfredo è deceduta alle ore 18.15 del 24 settembre 1961 per probabile emorragia interna in schizofrenica con stato di eccitamento”.
La narrazione è costruita volutamente così: Vitale indugia in intermezzi brevi tra frase e frase di chi ha trascritto la vita di Rossana con la presunzione di sapere di lei, allo scopo di rintracciarvi una consequenzialità, o forse di scacciare un’ipotesi tremenda. Vitale però nulla suggerisce: riporta fedelmente. Per esempio la vita, quella che si srotola dentro casa, e che trascorreva come tante in casa Vitale. Anche quel pomeriggio in cui la bella Rossana ha tagliato con le forbici per lungo un maglioncino che si era confezionata: per il medico è però soltanto una ragazzata di Carnevale. Eppure Rossana non fa pace con se stessa: di sé dice di essere una “persona storta”. “Per via degli occhi?” chiede la sorella e continua: “Ma guarda che i tuoi occhi non sono affatto storti […]”. “No, non è per gli occhi” spiega Rossana, che tentava di bucare gli occhi alle bambole perché non la guardassero.
La cartella clinica (l’“inchiesta sociale” tecnicamente) è però imprecisa, forse bugiarda?
“Il tenore di vita della famiglia è piuttosto elevato” dice, e aggiunge l’autrice: “Tenore piuttosto elevato… lo aveva detto mia madre o lo aveva dedotto – da cosa? – l’assistente sociale De Matteis? I graziosi vestitini che si vedono nelle poche foto di Rossana e me bambine li cuciva mia mamma di notte”. “Coprolalica è ripetuto cinque volte nella cartella clinica” ma l’autrice ricorda bene ogniqualvolta la sorella si era scandalizzata per aver sentito non parolacce, ma vaghe allusioni e scrive: “Che cosa diceva mia sorella? […] Malgrado l’evidenza non riesco ancora a crederci… So che non puoi sentirmi nel tuo nulla, Rossana, eppure te lo dico: oggi, sessantaquattro anni dopo la tua morte, parole come [quelle] non scandalizzano più nessuno”.
Qualcuno mente? O è la malattia a trasfigurare? Oppure, forse, sono le cure che ammalano?
“Durante uno dei sempre più frequenti conciliaboli famigliari intorno al grande tavolo, a casa dei nonni […] sentii parole sconosciute, nomi di farmaci evidentemente: insulina, perfenazina, reserpina, clorpromazina. E poi, senza l’“ina” finale: lobotomia”.
Viene in mente il celeberrimo La campana di vetro di Sylvia Plath, quando si legge di elettroshock, mani tese, suppliche e grida, morsi alle infermiere, elettrodi e scariche. “Finora con 150 unità di insulina non ha avuto coma. È sempre strana e bizzarra” e ancora: “Con 160 unità di insulina la paziente ha avuto il primo coma presentando però chiari segni di intolleranza alla cura” racconta la precedente cartella clinica, quella della casa di cura, ma Vitale non commenta mai.
Questa storia si racconta per fatti. Tesi, asciutti. Nelle parole dei medici che hanno refertato così come nelle sue che, altrettanto asciutte, sono pura testimonianza. Anche quando brevemente riepiloga com’è nata la tecnica dell’elettroshock, attingendo ancora una volta a quanto scrive un assistente medico, Ugo Cerletti, che ne giungeva a conoscenza: “Potei constatare che [nei macelli] i maiali non venivano uccisi dall’elettricità… Con l’aiuto di una grande pinza, si faceva loro passare attraverso la testa corrente-luce e i maiali cadevano, rigidi, senza coscienza, per poi entrare in convulsioni… e durante l’incoscienza del coma epilettico l’animale veniva sgozzato”.
Il canto di Serena Vitale è senza aggettivi. Rintraccia senz’aggiungere mai. Forse espia. E chiede persino scusa, nel momento in cui, sforzandosi di portare alla mente i cambiamenti della sorella nel corso della sua breve vita, in corrispondenza dell’aggravarsi della “malattia”, le è parso di ritrovare una possibile ragione di quanto è stato.
“Per presunzione sono caduta nella sciagurata trappola del “causa-effetto”. La schizofrenia non è un’influenza: “Ieri ho preso freddo, oggi ho la febbre”. È un tragico addio alla realtà di cui va rispettato il mistero. Perdonami, Rossana”.
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Per presunzione sono caduta nella sciagurata trappola del “causa-effetto”. La schizofrenia non è un’influenza. Perdonami, Rossana
Serena Vitale