di
Rinaldo Frignani

La polizia postale, che la settimana scorsa ha chiuso il profilo «Mia moglie» su Facebook, sta rintracciando gli autori dei messaggi che offensivi o che incitano alla violenza sessuale

Dalla pagina Facebook « Mia moglie» ai contenuti porno e ai commenti offensivi di due piattaforme online: «Phica.eu» e «Comeup». Un filo rosso che la polizia postale sta seguendo per identificare chi ha postato non solo immagini di donne in momenti intimi così come nella vita di tutti i giorni, ma anche frasi a sfondo sessuale che possono incitare a commettere reati, come la violenza sessuale. C’è infatti un collegamento diretto con il profilo che gli investigatori informatici hanno chiuso la settimana scorsa dopo le ripetute segnalazioni di utenti che da tempo avevano visto quello che accadeva su «Mia moglie», dove oltre 30 mila uomini pubblicavano le foto delle consorti (ma spesso anche solo di amiche o perfette sconosciute), aggiungendo la frase «E tu cosa le faresti?». Una pagina aperta da anni che nessuna lamentela, esposto, denuncia era riuscito a far oscurare. Almeno fino a oggi. La stessa Meta, la società americana proprietaria di Facebook, ha infatti preso posizione dopo i contatti con la Postale, annunciando in quel momento di aver chiuso il profilo incriminato. Una svolta. 

Come un attacco hacker

Molti di quei contenuti sarebbero stati tuttavia pubblicati anche sulle due piattaforme adesso finite al centro delle indagini. Oscurarle appare tuttavia complicato, perché si tratta di portali che probabilmente vengono gestiti dall’estero. E non soltanto in un unico Stato ma non si esclude utilizzando una rete di pc che gestisce quelle pagine da luoghi differenti nello stesso momento. Ieri proprio «Phica.eu», dopo le notizie sulla presenza sulle sue pagine di immagini di politiche italiane, è diventato irraggiungibile per il numero di clic. Una sorta di attacco hacker in stile Ddos, in pratica con l’intasamento del sistema provocato dall’enorme mole di richieste di accesso contemporaneamente, che ha mandato in tilt la piattaforma, che è tuttora presente sul web.



















































Serve un ordine dell’autorità giudiziaria

Un nodo fondamentale da superare sarà adesso quello di capire se i Paesi dove si trovano le sedi dei due portali abbiano accordi bilaterali con l’Italia sul fronte del contrasto ai reati informatici, perché altrimenti sarà difficile procedere alla chiusura o all’oscuramento dei profili, che comunque in tutti i casi, come spesso accade, potrebbero essere riaperti — come sembra sia accaduto con «Mia moglie» — con un altro nominativo. Senza accordi invece sarà necessario capire se almeno le leggi siano compatibili, perché i reati di pubblica opinione non sono riconosciuti ovunque. E alla fine per procedere nei confronti degli amministratori di queste piattaforme in Italia serve un decreto dell’autorità giudiziaria sulla base dei riscontri svolti dalle forze dell’ordine in seguito alle denunce delle vittime, mentre per il profilo Facebook è sufficiente l’iniziativa di chi indaga. Nel frattempo però l’attenzione di chi indaga si concentra sia sulle denunce che sono in procinto di essere presentate da singole donne ma anche da associazioni che stanno organizzando class action nei confronti dei portali finiti sotto accusa, sia sugli utenti che hanno scritto messaggi o partecipato a chat commentando le immagini delle donne pubblicate sui siti, con l’aggravante di averlo fatto anche nei confronti di rappresentanti delle istituzioni. Le indagini sono cominciate da giorni, e già in passato non è stato complicato risalire alle identità degli utenti coperte da nickname. In questo caso si tratterebbe di italiani, quindi residenti nel nostro Paese, che possono rischiare denunce per varie fattispecie, dalla diffamazione alle minacce, fino all’istigazione a commettere reati.


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28 agosto 2025 ( modifica il 28 agosto 2025 | 07:39)