La storia non è narrazione, si scrive in pista.
Riparte il mondiale di F1 dopo la pausa estiva, e si riapre il duello in casa McLaren per la conquista del titolo. Un confronto che sta diventando quasi simbolico quello tra Oscar Piastri e Lando Norris, come ogni buon duello tra compagni di squadra. L’epopea Hamilton prima e Verstappen poi sta andando verso un capitolo nuovo, con nuovi protagonisti pronti a prendere la scena. E la Formula 1, come ogni grande sport, è prima di tutto un gioco narrativo. Ed è qui che diventa interessante il profilo di Piastri, inseritosi prepotentemente in quello che sembrava essere a tutti gli effetti, con stampa compiacente, l’era Norris.
Il motorsport è un campo dove si corre, certo, ma anche dove si raccontano e si costruiscono eroi. Il talento conta, ma se un pilota rientra nell’identikit “giusto”, soprattutto nella Formula 1 moderna, viene spesso anticipato da una predisposizione mediatica: un alone di retorica. Lo spettacolo (e gli interessi economici) che cerca di dominare sullo sport. Del resto noi, italiani, ferraristi, da molti anni abbiamo “il predestinato”, appellativo arbitrario e mediatico che – vista la realtà della pista – sta perdendo la sua forza e credibilità.
In questo senso, Lando Norris era ed è il protagonista inglese perfetto: britannico, cresciuto nel vivaio McLaren, educato, brillante, pop, instagrammabile, mai “scorretto”, il volto ideale per un pubblico che prima o poi doveva scrollarsi di dosso l’ombra pesante di Hamilton o non riesce a recepire l’inaccessibilità caratteriale di Verstappen. In qualche modo era stato deciso che fosse lui il campione del futuro, assieme a George Russell, altro fenomeno pop entrato col tappeto rosso mediatico nel circus.
Eppure — come spesso succede nello sport, quando è davvero sport — la pista ha una trama tutta sua. Oscar Piastri, australiano di poche parole e molta guida, ha scompaginato la sceneggiatura creata attorno a Lando Norris. Non con clamore, ma con la tenacia paziente di chi non pretende il palcoscenico: se lo prende. Mentre Norris aveva già il favore delle copertine e dei social, Piastri si è conquistato un posto ma soprattutto i Gran Premi. Quasi l’australiano sta riuscendo a ricordare, nei modi, un certo Kimi Raikkonen.
È la sostanza che disinnesca la forma: la stagione 2025 ha trasformato quella che sembrava una gerarchia in una dialettica. Il dato è noto, ma va meditato: dopo 14 GP, Piastri ha 6 vittorie, 11 podi, una media punti spaventosa e una calma interiore che nessun under-25 in griglia può vantare. Ha battuto Norris in pista e, forse più interessante ancora, lo ha battuto nel ruolo. Non quello assegnato dalla stampa. Quello reale, dentro il box. Oggi, non è più “il compagno di Norris”. È Oscar Piastri, primo contendente al titolo. Leader tecnico e morale di una McLaren che — con lui — ha trovato una voce nuova. Essere leader in McLaren non è mai stato un mestiere leggero. Lo sa chiunque ricordi le stagioni incendiarie tra Prost e Senna, o le tensioni mai sedate tra Alonso e Hamilton nel 2007.
McLaren è una squadra che non ammette una leadership comoda. Esige dualismo, spinge al conflitto, fa crescere attraverso l’attrito.
È anche un team carico di storia, con una cultura tecnica affilata e un’identità estetica e industriale molto chiara: McLaren è precisione, è rigore britannico, è quella bellezza razionale che si esprime in una macchina perfetta solo se chi la guida è altrettanto misurato. In questo senso, Piastri e McLaren si somigliano più di quanto si possa pensare: nessuno dei due urla. Ma quando funzionano, funzionano meglio di tutti. Norris, in questo ambiente, sembrava destinato a raccogliere il testimone. Ma il talento da solo non basta. Serve saperlo sopportare. Serve sopportare anche e soprattutto la pressione, la psicologia, l’estremo delle corse. E Piastri, oggi, sembra sopportare meglio il peso di tutto, anche della responsabilità di competere al limite per un titolo mondiale guidando una McLaren.
Piastri contro Norris non è una guerra tra influencer, né una faida costruita dai media. È una rivalità vera e pura, due idee di mondo che si incrociano ogni domenica a 300 all’ora. Oscar è misurato, silenzioso, metodico. Lando è istintivo, brillante, comunicativo. E mentre uno costruisce il personaggio, l’altro costruisce il palmarès. Ma non si tratta di scegliere da che parte stare. Piuttosto, si tratta di riconoscere che oggi, se si vuole capire dove sta andando la Formula 1, non bisogna più guardare solo a Norris. Bisogna guardare a fianco. E vedere chi lo sta battendo. Per un breve periodo, sembrava che Piastri dovesse accontentarsi del ruolo di secondo. Ma lo sport — quando è sano — non conosce ordini prestabiliti.
La pista non vota per simpatia. Non pubblica stories, non ritwitta. La pista misura. E in questo calcolo secco, Oscar ha cominciato a emergere.
Lo ha fatto in Bahrain, vincendo con autorità. Lo ha fatto a Shanghai, dominando dal primo all’ultimo giro. Lo ha fatto a Miami, lasciandosi dietro l’ombra lunga di Norris. E sempre mostrandosi all’altezza del dominatore Verstappen. Ma più ancora che nelle vittorie, si è rivelato nella gestione: nei momenti difficili, nei sorpassi evitati, nelle parole non dette. È lì che si misura un campione: non solo quando brilla, ma quando decide di non distrarsi.
Essere Oscar Piastri nell’era Lando Norris significa scegliere il contenuto al posto dell’apparenza. Significa ricordare a chi guarda che il talento, se è vero, non ha bisogno di essere spiegato. È sufficiente che accada. Piastri è, oggi, una lezione vivente: sul silenzio, sulla dedizione, sulla fedeltà al mestiere. Ci ricorda, in tempi di narrazioni isteriche, che lo sport non è solo intrattenimento e che la gloria non si programma a tavolino, non si chiede ma soprattutto non si compra: si merita.
E in fondo, non è sempre stato così?
Oggi, senza volerlo, Oscar Piastri si muove su un sentiero simile a quelli passati: non per diventare Senna, ma per ribadire un principio antico — che le gerarchie si costruiscono col merito. E la storia della Formula 1 si scrive ogni maledetta Domenica. Non in ufficio con l’ufficio marketing. Non nei comunicati stampa. Non nelle trasmissioni TV. Non sui social. Ma lì dove ogni parola è inutile, e conta solo chi arriva davanti.