Sei decenni dopo la morte, Le Corbusier continua a porre domande più che offrire risposte. Icona della modernità, molto più che il teorico della “casa come macchina per abitare”, l’architetto svizzero naturalizzato francese resta un laboratorio aperto dove storia, paesaggio, arte sacra e urbanistica si intrecciano. 

Nel 1923, in “Vers une architecture“, Charles-Edouard Jeanneret, detto Le Corbusier, fissava un’idea destinata a diventare celebre: la casa come “macchina per abitare”. È il decennio dei volumi puri, dei pilotis, di una geometria che ha fatto scuola. I suoi viaggi in Italia (1907) e in Oriente (1911, con approdo finale nel Belpaese) indicano una formazione nutrita da rovine, città, monasteri, paesaggi osservati e disegnati sin dagli esordi a La Chaux-de-Fonds. La sua modernità, allora, non smette di negoziare con la tradizione. La riscoperta dell’autore passa oggi per una miniera documentaria senza pari: la Fondazione Le Corbusier mette a disposizione 34 mila progetti originali, 8 mila disegni e 400 mila documenti. Numeri che non solo alimentano inedite linee di studio ma spingono a riconsiderare l’immagine “cristallizzata” dell’architetto agli anni Venti. Un tassello decisivo di questa nuova lettura fu la grande mostra del Centre Pompidou (Parigi, 1987), all’indomani del centenario della nascita (1887), che restituì il peso dell’organicismo corbusiano: la ricerca di analogie con organismi viventi, gli objets à réaction poétique – conchiglie, sassi, carapaci – come scintille del progetto.