C’è una linea d’ombra, sottile e velenosa, che attraversa il cinema statunitense degli anni Cinquanta. Una faglia che separa l’immagine idealizzata degli Stati Uniti post-bellici dal loro inconscio rimosso. In quella frattura si insinua La morte corre sul fiume di Charles Laughton, parabola nerissima e aliena, al punto da sembrare più un film europeo che un prodotto hollywoodiano. Un’opera che abita i confini – tra fiaba e incubo, espressionismo e naturalismo, religione e violenza – e che fa del racconto infantile un campo di battaglia morale ed estetico. Uscito nel 1955 e accolto con sospetto da una critica ancora prigioniera dei canoni narrativi dominanti, il primo e unico film da regista di un attore britannico all’epoca popolarissimo, è diventato nel tempo un testo sacro del cinema moderno, nonché una radice maledetta che affonda nel cuore nero del Paese. La storia è quasi biblica nella sua semplicità: un predicatore itinerante, Harry Powell (Robert Mitchum), si mette sulle tracce di due bambini, un fratello e una sorella, custodi inconsapevoli del denaro rubato dal padre e nascosto prima della sua esecuzione. Powell seduce la madre vedova (Shelley Winters) e si insinua nella vita domestica per portare a compimento la sua missione. Ma il vero viaggio comincia quando i bambini fuggono, lungo un fiume che si fa simbolo di maturità e soglia del mito.

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Visivamente, il film è un cortocircuito: l’eredità del cinema espressionista tedesco si fonde con un’immaginazione infantile e pastorale che richiama le illustrazioni delle fiabe protestanti. Laughton non cerca il realismo, ma un’astrazione morale. Le scenografie sembrano sospese, irreali – il fienile come teatro d’ombre, la casa sul fiume come cattedrale domestica. Il montaggio è ellittico, spezzato, quasi musicale; i tempi si dilatano e si accorciano con ritmo da cantico liturgico. L’influenza di maestri come Murnau, Lang, Dreyer è evidente ma mai pedissequa: Laughton le rielabora in funzione di un cinema interiore, che non illustra ma evoca. La sequenza più celebre – il corpo della Winters, legato nel fondo del fiume come una sposa cristallizzata, i capelli fluttuanti come alghe – è puro cinema silente, fotografia del terrore e della bellezza tragica. Un’immagine sospesa nel tempo, un avvertimento macabro ma puntuale.

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Ma è Robert Mitchum a incarnare il nucleo della pellicola. Il suo Harry Powell è una maschera perfetta di complessità: voce melliflua, passo felpato, lo sguardo che oscilla tra l’estasi e la minaccia. È un predicatore carismatico, portatore di una religiosità malata, quella dell’America rurale che confonde Dio con la proprietà privata, la giustizia con il castigo. Powell non è un semplice villain: è la personificazione del male che si traveste da bene, della violenza che abita il linguaggio religioso, del patriarcato che si fa dottrina. La sua iconografia – le mani tatuate con “LOVE” e “HATE”, la Bibbia sempre sotto braccio, il cappello che lo trasforma in un’ombra stilizzata – è entrata nella storia del cinema perché Mitchum la carica di un’ambiguità mai risolta. La sua interpretazione è tutta costruita sul disequilibrio: a tratti caricaturale, quasi grottesca, poi improvvisamente crudele e silenziosa, come se il personaggio sfuggisse di mano all’attore e al regista. In Powell convivono l’epica western e il Ku Klux Klan, il revivalismo religioso e la malinconia noir. Ed è proprio questa instabilità a renderlo ancora oggi inquietante.

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La morte corre sul fiume è anche un film sullo sguardo dell’infanzia, su come i bambini vedono e sentono ciò che gli adulti non riescono più a percepire. John e Pearl sono testimoni silenziosi di una guerra tra archetipi: l’autorità paterna (fallita), la madre sacrificale (consumata), il predicatore-giustiziere (falso), e infine la vecchia salvatrice, Miss Cooper (Lillian Gish), che incarna una forma di maternità attiva, resistente, politica. È lei a spezzare il ciclo del male, non con la forza, ma con la cura, con il canto, con la protezione. In questo senso, il film anticipa una certa poetica del cinema americano indipendente, dove l’etica si misura nei gesti minimi, nei silenzi, nella perseveranza del quotidiano. Il finale, con la voce di Gish che recita «I bambini sopravvivono… e resistono», ha il peso di una benedizione laica. È un momento di grazia che non cancella il male, ma lo attraversa. E restituisce al cinema il suo potere originario: quello di raccontare il mondo attraverso la lente deformante del mito, ma senza mai rinunciare alla verità.