di
Valerio Cappelli
L’ultimo regista italiano ad aver vinto con Sacro GRA il Leone d’oro nel 2013: «Ho girato senza sceneggiatura, tutti sanno che c’è un inizio e una fine, nessuno sa cosa c’è dentro»
VENEZIA Gianfranco Rosi è l’ultimo regista italiano ad aver vinto, nel 2013 con Sacro GRA, il Leone d’oro: «Fu un’emozione inaspettata, unica irripetibile, dove ho imparato che i premi non si devono aspettare e quando arrivano te li devi dimenticare, è l’unico modo per andare avanti».
Era la prima volta che a Venezia vinceva un documentario. Presidente di giuria era Bernardo Bertolucci che a questo protagonista del cinema del reale, 61 anni, ha insegnato un principio importante: «L’inquadratura deve contenere anche quello che non si vede». È ciò che cerca in Sotto le nuvole, in gara, dove ha coltivato l’idea di «una Napoli che ne contiene un’altra e un’altra ancora, in una continua ricerca del fuori campo».
Qui Napoli si vede solo nella sequenza del MANN, nei magazzini sotterranei del museo che conserva opere non esposte provenienti dalle zone intorno alla città, Campi Flegrei, Pompei, tutto ciò che c’è attorno alle falde, ed è questo, attraverso luoghi, situazioni, personaggi, lo scenario di un film che il suo regista non vuol vedere, «è sempre così, dopo due minuti esco».
Il titolo nasce da Cocteau. In una lettera poetica alla madre diceva che il Vesuvio, che si erge imponente sul paesaggio napoletano, fabbrica tutte le nuvole del mondo. «Questo dà un senso di universalità». Plinio il Giovane descriveva cos’era accaduto a Pompei, le nubi abbandonate a sé stesse, la città in cenere.
Rosi con le sue memorie dal sottosuolo è partito da qui, dove la terra talvolta trema, per mettere in moto «un’immensa macchina del tempo, tra sospensioni e trasformazioni. Racconto un’altra Napoli, quella meno conosciuta dei paesi vesuviani».
Girando in bianco e nero può sembrare provocatorio nella città del sole: «Una scelta che diventa forte elemento narrativo e costringe a vedere le cose in modo diverso e a trasformare la realtà». Sotto il vulcano, tra depositi della memoria e realtà di oggi ci sono un maestro di strada che insegna ai bambini; le forze dell’ordine che inseguono i tombaroli; gli archeologi giapponesi che raccolgono semi e ossa; i marinai siriani che approdano col carico di grano ucraino; i vigili del fuoco che si trasformano in psicologi aiutando le paure degli abitanti che chiamano in continuazione: «Ho sentito una scossa esagerata». Rosi: «Basandosi sul sonoro non ci sono incontri fisici e tu immagini quei luoghi dove si intrecciano dramma e comicità, perché la paura vive di momenti surreali, una signora impaurita dalle scosse chiamava i vigili ogni giorno chiedendo che ora fosse».
«Per 3 anni ho girato e montato in modo parallelo, senza sceneggiatura, con un’idea iniziale. Tutti intorno a me sanno che ci sarà un inizio e una fine, nessuno sa cosa ci sarà dentro». Un’avventura in cui l’improvvisazione gioca la sua partita, come le nuvole. Gli incontri imprevedibili «arrivavano da soli, e tutte le storie combaciavano pur non avendo legami tra loro». Il cemento è in una sorta di devozione pagana della solidarietà, «dove la civiltà inizia nel momento in cui ognuno dà qualcosa all’altro».
30 agosto 2025
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