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Classe 1993, Paolo Strippoli è uno dei più unici che rari giovani autori già inseriti nel circuito cinematografico italiano. Un nome di riferimento nel campo da gioco dell’horror nostrano, con all’attivo un film per piattaforma, A Classic Horror Story (in regia con Roberto De Feo), un apprezzato incubo familiare come Piove, e adesso – mentre sta lavorando alla sua quarta pellicola, L’estranea – una pellicola come “La valle dei sorrisi” nel Fuori Concorso al Festival di Venezia 2025.
Un’opera, al cinema dal 17 settembre con Vision Distribution, che si posiziona sulle traiettorie del folk horror e dei racconti sull’occulto, che non cerca lo shock facile ma lavora lentamente, subdola sottopelle.
Di cosa parla La valle dei sorrisi
Alla base della sceneggiatura di Strippoli, Jacopo Del Giudice e Milo Tissone c’è una grande intuizione: a Remis, un remoto paesino immerso tra le montagne del nord Italia, nessuno è triste. “A noi piacciono i sorrisi” dice qualcuno (Romana Maggiora Vergano) a Sergio Rossetti (Michele Riondino), professore di educazione fisica ed ex campione di judo che arriva qui per una supplenza e con un trauma feroce sepolto nel passato.
Un cancro emotivo che lo consuma e lo insudicia. Basta guardarlo, non si cambia d’abito, si sente che puzza di sudore e di alcol. È accolto con gli onori, ma non va a genio a tutti quanti. Soprattutto nel momento in cui questa sua tristezza cronica sembra mettere a repentaglio la serenità esibita delle persone del posto. “A noi piacciono i sorrisi”. Ma che vuol dire?
Facendo rima alla condizione di estrema medicalizzazione della nostra società, che ambisce a vivere senza dolore, a performare la felicità ed esorcizzare il male scegliendosi panacee momentanee e distensioni di facciata, La valle dei sorrisi disvela il suo oggetto indecifrabile. È un ragazzo, Matteo (Giulio Feltri, volto interessante), che si fa catalizzatore di tutti i mali. Basta toccarlo e il malessere di vita sfuma via. Perché se si può stare bene, non si vuole di certo tornare a stare male.
L’orrore è quello che striscia dentro
Quello di Strippoli è un orrore a basso voltaggio (niente jumpscare, semmai una latente angoscia), dove il regista lavora ancora sul rimosso, sulle cose che annegano dentro e trascinano giù. L’architrave è nel rapporto tra padri e figli e infatti Sergio non impiegherà molto ad avvicinarsi a Matteo (gli ricorda qualcuno), a prendersi pena per questo idolo che è corpo sacrificale. Anche a costo di mettersi contro la rete di sfruttamento religioso-politica che su Matteo lucra, guidata dall’untuoso padre del ragazzo (Paolo Pierobon), che fuma lo svapo e prende appuntamenti con audio su WhatsApp.
Strippoli è uno a cui piace mettere le cose sempre bene al centro dell’inquadratura, per poi storcere gli angoli, squagliare gli orizzonti prossimi e intercettare lungo il racconto le ambiguità dei suoi protagonisti – per dire, anche Sergio “utilizza” i poteri miracolosi di Matteo. Forse così facendo, in particolar modo nella prima metà, guida un po’ troppo lo spettatore, lo prende per mano e indirizza su chi è cosa. Sotto un certo punto di vista è come se non ci fosse davvero spazio per il mistero dentro il mistero. Anche nel momento in cui presenta la natura silenziosa e introflessa di Matteo, circoscrivendone ciò che davvero pensa e che arriverà a fare nella dimensione abbastanza trita di un’identità repressa.
Una scelta volta a razionalizzare (è in fondo un dichiarato horror dei traumi, lo abbiamo detto), ma che come rovescio ha il depotenziare il portato di disturbo a cui un’opera tale avrebbe potuto ambire, soprattutto nel momento in cui si avvia verso un finale dove le cose si fanno davvero inquietanti e scomode.
E pure in ambito risoluzione il film sconta il non lavorare in maniera chiara sulla chiusura, impantanandosi nel problema di scene conclusive che si susseguono con toni definitivi e contraddittori una dopo l’altra. Il finale vero e proprio, nonostante sia apprezzabile per la capacità di rifuggire il conciliatorio, sgomita e si raccorda male a livello narrativo con ciò che lo precede. Andando così a storcere in parte la portata dell’impatto non da poco con cui si lascerebbe la felice, ma catatonica, valle di Remis.
Voto: 6.5
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