Di vacanze, Gabriele Vacis, non se ne concede molte, perché «ci sono le tournée estive degli spettacoli da seguire». Ma a volte un po’ di tempo se lo ritaglia. «Sono appena tornato dal Cilento, dov’ero ospite di amici: una terra bellissima con orizzonti spettacolari». E tra una mozzarella di bufala, una visita ai ruderi e un bagno in mare, Gabriele ha anche curato un progetto museale nei dintorni, a Oliveto Citra, chiamato “Mutevole – Museo delle Terre in Movimento”. È dedicato alle storie legate al terremoto del 1980, ma pure all’emigrazione: il tutto elaborato con tecniche estremamente moderne. Temi cari al regista, che ha in curriculum – per citare – spettacoli come “Il racconto del Vajont” e “Novecento” (a cui Eugenio Allegri diede lustro interpretativo) e tappe importanti, dalla regia della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Torino alla co-fondazione di Torino Spiritualità, oltre a collaborazioni con grandi come Valeria Moriconi, Arnoldo Foà, Alessandro Baricco, Lella Costa, Marco Paolini.
Parlando di infanzia, invece, com’era la sua famiglia e qual è il ricordo delle sue villeggiature?
«All’epoca vivevo con mio fratello Ermanno, papà Vittorio, che faceva l’elettricista, mentre mamma Gina aveva un negozio di scarpe. Con noi abitavano i genitori di mia madre. Il nonno era calzolaio e la nonna badava a noi bambini. Era lei che ci portava al mare, nonna Effa, che per l’anagrafe era Genoveffa. Sempre lei che mi faceva vedere il teatro in tv: ricordo bene le commedie di Goldoni fatte da Cesco Baseggio. In famiglia c’era una certa sensibilità sul tema. Così ogni tanto andavamo tutti a vedere gli spettacoli di Macario. Mia nonna, poi, mi raccontava bellissime storie di famiglia. Forse ci ricamava un po’ su, ma mi accendevano la fantasia, mi piacevano moltissimo».
In ferie dove andavate?
«A Lavagna, in Liguria, fra Sestri Levante e Rapallo e Chiavari. Lì si estraeva l’ardesia e si fabbricavano lavagne e il fratello di mio nonno molti anni prima era emigrato in quel paese dal Veneto in cerca di lavoro e ci si era stabilito. Così uno dei suoi figli, un cugino di mia mamma, aveva casa a Lavagna e io, mia cugina Maria Grazia che aveva la mia età, mio fratello e l’altra cugina Luciana che erano coetanei, passavamo le estati lì, sotto la supervisione di mia nonna».
E i suoi genitori?
«Ogni tanto venivano a trovarci, ma diciamo sinceramente che i miei ci spedivano al mare per non avere i figli tra i piedi e ritagliarsi un periodo di tranquillità. Un atteggiamento abbastanza modernista, per l’epoca. Noi comunque non abbiamo mai vissuto questa cosa con dispiacere, anzi ci consideravamo fortunati perché l’alternativa sarebbe stata la colonia, che per noi corrispondeva alla galera. A Lavagna eravamo molto liberi, a volte andavamo al mare da soli: la nonna ci affidava al bagnino Italo, di cui si fidava molto».
Un momento particolare che ricorda?
«Il sabato sera andavamo al cinema all’aperto. Una sera diedero un film, “Mary Poppins” mi pare, ma era di mercoledì e mia nonna, piuttosto autorevole, non voleva che ci andassimo, anche perché il cinema costava e noi non sguazzavamo proprio nell’oro. Quindi aprimmo una vertenza con la nonna per andare al cinema il mercoledì. Presente anche lo zio Lietto (diminutivo di Luigi), che disse: “Ma insomma, a si venu qua godere le arie o per divertirve? ”. Le due cose, insomma, erano in alternativa».
Come si è risolto il tutto?
«Abbiamo vinto noi bambini, perché noi eravamo già della generazione che vinceva sugli adulti. La prima generazione cresciuta a Nutella, televisione, vacanze estive e un po’ di concessioni».
Qualche altro ricordo?
«Mio padre comperò un vecchio “moscone” di salvataggio dismesso ma ancora funzionante. Io amavo uscire da solo sul moscone, per stare un po’ con me stesso, leggere e poi nuotare al largo, anche se al rientro mi beccavo solenni sgridate».
Mai avuto disavventure?
«Io non ne ho ricordo perché avevo circa un anno, ma i miei raccontarono di essere stati avvicinati da una coppia di americani, non più giovanissimi e senza figli, con cui si erano frequentati per qualche giorno. Poco dopo, spiegando di essersi molto affezionati a me, costoro proposero ai miei di comperarmi. Mio padre voleva prenderli a pugni, ma mia mamma lo trattenne. Io, poi, quasi mi arrabbiai: se mi avessero lasciato a loro, magari a quest’ora sarei un noto regista di Hollywood».
E nell’adolescenza, come passava l’estate?
«Dopo i sedici anni cominciai a non volerne più sapere delle vacanze con cugini e nonna. Era l’adolescenza che mi rendeva più autonomo e desideroso di altre esperienze. Ma già un po’ prima, quando ero ragazzino, io solo della famiglia venivo mandato, dopo il mare, in campagna a fare la vendemmia. Ero il più discolo di tutti e così cercavano di tenermi a bada, di distrarmi. Poi, nel 1974, a 19 anni, feci il mio primo viaggio on the road in Calabria con un gruppo di amici. Avevamo una vecchia Lancia Appia di mio padre del 1062 e due Fiat 500. Il viaggio durò una settimana perché evitavamo le autostrade per risparmiare: nessuno di noi poteva disporre di oltre 50 mila lire per la vacanza, tutto compreso. Dico solo che ci mettemmo cinque ore per arrivare da Torino ad Asti, anche perché ci perdevamo spesso e non sapevamo leggere bene le cartine geografiche. Una volta capitò che bruciammo persino i freni in discesa. Insomma, un disastro, ma anche un’avventura».