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Valerio Cappelli, inviato a Venezia
La serie sarà trasmessa l’anno prossimo su Hbo Max. Il protagonista Gifuni: «Una ragnatela che somiglia alle prime quattro righe del “Processo” di Kafka»
VENEZIA Marco Bellocchio, Enzo Tortora è morto di ingiustizia? «Scientificamente non è stato provato ma direi di sì, quell’ingiustizia gli spezzò il cuore all’interno». Processato, condannato, assolto. Uno dei più clamorosi errori giudiziari italiani, la parabola tragica di uno dei personaggi della tv più popolari. Enzo Tortora, la caduta di un uomo innocente. «Resta il mistero della cecità di certi giudici oltre ogni umana immaginazione. E la perseveranza del loro errore», dice il regista Marco Bellocchio che per la nuova piattaforma HBO Max firma la serie tv in sei episodi Portobello, diffusa entro marzo 2026, protagonista Fabrizio Gifuni.
Portobello è il programma che Tortora conduce alla Rai con gentilezza quasi leziosa e frasi tornite; richiama fino a 28 milioni di italiani davanti al video, tutti in attesa che il pappagallo parli. «Si dà parola agli ultimi, ai bizzarri, a chi vuole giustizia, ai più strani inventori di proporre le più strane invenzioni. E lui denuncia le grandi e piccole ingiustizie di tutti i giorni», ricorda Bellocchio, che da anni ha abbandonato la psicoanalisi per raccontare con straordinaria freschezza pezzi di paese, Buscetta, Moro, gli intrighi del Vaticano nell’800, ora Tortora.
Portobello conforta il paese squassato dalle BR, dal terremoto in Irpinia che dà la scossa anche agli equilibri della Nuova Camorra Organizzata. Giovanni Pandico, uomo di fiducia di Cutolo, spettatore di Tortora, decide di pentirsi. «E ai giudici, onesti e in buona fede, ma che non vollero vedere, accecati da un’idea missionaria di giustizia, e che ancora più inspiegabilmente non vollero riconoscere il proprio errore, fa il nome di Tortora». Il 17 giugno 1983, per una serie di coincidenze assurde, viene incarcerato. L’accusa, in un’operazione che porta a 856 ordini di cattura, tra avvocati, imprenditori, sindacalisti, funzionari pubblici: traffico di stupefacenti. Il Corriere titola: «Camorra, la notte della sconfitta».
Tortora, gli occhiali sulla punta del naso come sempre, è spaesato, smarrito. Incredulo, pensa a un errore, parla di macchinazione. Gifuni: «Cosa significa quando qualcuno ti bussa alla porta e ti dice: venga con noi. Ed entri in una terribile ordalia, una ragnatela che somiglia alle prime quattro righe del Processo di Kafka». L’attore all’epoca era uno studente di 18 anni che si preparava alla maturità, «poi mi sarei iscritto a Legge e quella vicenda la seguivo ascoltando Radio Radicale. Io non riuscivo a dire questo non è innocente, ma nemmeno il contrario. Fu una delle pagine più buie dei media italiani, autorevoli giornalisti scrissero frasi da far venire i brividi, c’era la gioia di avventarsi alla gola, al primo inciampo di un uomo di successo. Questa storia ha lasciato una ferita profonda nella società italiana». Gifuni, ma Bellocchio (dopo Moro) come l’ha preparata? «Marco, alla sua età e con la sua filmografia, ti chiede cosa ne pensi, cosa sai, che idea ti sei fatto».
Ammanettato all’alba in maniera plateale a favore di telecamere, porta le mani in alto, la gente lo insulta, «ipocrita», la Rai sparisce; va detto che a Portobello arrivò dopo sette anni di esilio, per averla criticata. Un moralista che si batté per liberalizzare la tv. Inchiodato da due pluriomicidi. I giudici al primo interrogatorio gli fanno quattro domande in croce, non hanno bisogno d’altro.
L’Italia si divise in innocentisti e colpevolisti forcaioli. Tanta gente comune raccontata da Tortora, i solitari della provincia, si sentì tradita. Lui è un uomo popolare ma non di potere, coltivava l’ostentazione del perbenismo che sfiorava l’ipocrisia. Bellocchio, a lei era simpatico? «Non era un bersaglio ma noi intellettuali di sinistra lo guardavamo con un certo distacco, impegnati in un’altra direzione ideologica, era la cosa più lontana da me. Il suo tono di superiorità verso i concorrenti, lo sfoggio di cultura non me lo rendevano particolarmente simpatico, non che mi fosse antipatico. Era inviso a una potente classe sociale che vedeva con disprezzo e grande invidia la sua enorme popolarità, di un liberale che non veniva dal popolo e che era un borghese molto presuntuoso».
Con l’aggravante che non era protetto dalle due grandi chiese di allora, la Dc e il Pci, «e perciò anche il Vaticano diffidava di lui, insomma non godeva di nessuna protezione». Bellocchio ha letto tante carte, «sono partito dalle lettere che Tortora scriveva dal carcere alla sua giovane compagna, Francesca Scopelliti (nel film Romana Maggiora Vergano), poi c’è il rischio dell’immaginazione. Ma la famiglia Tortora, la figlia Gaia, non hanno fatto alcuna ingerenza».
Da mostro a vittima, una Storia italiana? «C’è il precedente del povero Valpreda per la strage di piazza Fontana. Tortora in un articolo all’inizio gli andò contro, e Valpreda gli rispose chi la fa l’aspetti. Tortora credeva nella legge ed è come se la legge si fosse vendicata su di lui». Un unicum nei casi di mala giustizia? «Tutti si accorsero che le accuse non poggiavano su nulla, l’errore fu di portarle fino alla fine, all’appello».
Dopo un anno e 33 giorni di detenzione tra carcere e domiciliari, nel 1987 viene assolto, a quattro anni dal suo arresto. «Rifiutò una offerta vantaggiosa da Berlusconi sulle sue tv, volle tornare a rifare Portobello alla Rai ma aveva perso lo spirito e la leggerezza». Una storia italiana, da imputato a simbolo, da sbatti il mostro in prima pagina a vittima della giustizia. Morì nella sua casa di via dei Piatti, nel centro di Milano, che non aveva compiuto 60 anni. Chiese che l’urna con le sue ceneri contenesse un libro del Manzoni, Storia della colonna infame.
1 settembre 2025
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