Il mobbing sul lavoro è un tema classico nelle sentenze di tribunale e, anche quando viene accertato che non ricorre nel caso concreto, offre comunque spunti molto interessanti per capire come comportarsi ed evitare rischi e conseguenze legali.

Lo ha chiarito nuovamente la Cassazione, con sentenza n. 10730 di quest’anno, secondo cui l’azienda – pur se non provati gli atti persecutori sul lavoro – può essere comunque essere ritenuta responsabile, per non aver eliminato la situazione fonte di stress in ufficio e rispondere ai sensi del Codice Civile.

Vediamo allora la vicenda e l’importante decisione, evidenziandone la sua portata generale.

Il caso concreto e le violazioni denunciate in tribunale

Una lavoratrice aveva citato in tribunale il datore al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, per un asserito sovraccarico di lavoro ingiustificato e non gradito. L’intenzione della donna era quella di provare in giudizio il mobbing o straining nei suoi confronti, collegati alla mancata considerazione della sua indisponibilità a lavorare di più e a assumere incarichi di maggior responsabilità (e senza formazione specifica), per ragioni personali. Nella disputa, la dipendente peraltro denunciò il sopravvenire di una sindrome ansioso-depressiva nel gradiente invalidante del 40%.

Confermando la decisione del primo grado, sulla scorta della documentazione prodotta in aula, il giudice d’appello ha escluso conseguenze legali per l’azienda, non ritenendo provati gli atti persecutori, sistematici e prolungati nel tempo, nei confronti della lavoratrice.

La donna fece però ricorso in Cassazione, denunciando violazione e mancata applicazione – da parte dei giudici – dell’art. 2087 Codice Civile. Come si legge nella sentenza della Corte che richiama tutto il percorso della causa, i giudici infatti avrebbero accertato i fatti adottando:

a parametro valutativo unicamente la nozione di mobbing, assunta quale metro di riferimento dell’inadempimento dell’obbligo di salvaguardia della salute psicofisica del lavoratore e della sua dignità morale di cui all’invocata norma.

In sostanza, la decisione del giudice d’appello aveva escluso la responsabilità datoriale, limitandosi a negare gli atti persecutori a fronte della lamentata assegnazione di mansioni non gradite, del sovraccarico di lavoro e del sopravvenuto stato ansioso-depressivo, senza verificare autonomamente la violazione degli obblighi di tutela della sicurezza e salute.

Il datore può essere responsabile anche senza atti persecutori: il ruolo dell’art. 2087 Codice Civile

Per giungere alla decisione n. 10730, la Cassazione ha fatto perno proprio sul citato art. 2087 sulla tutela delle condizioni di lavoro. Si tratta di una vera e propria “norma di chiusura”, ossia una disposizione di carattere generale che impone al datore un generico e ampio obbligo di protezione e si aggancia al principio costituzionale di cui all’art. 32 Cost. (diritto alla salute).

Ebbene, il punto è che la giurisprudenza ha più volte ribadito che l’art. 2087 Codice Civile può essere invocato anche quando non sia stata violata una norma specifica, a patto che il danno sia riconducibile alla mancata adozione di provvedimenti, regole e misure esigibili secondo le odierne scienza e tecnica.

Per questo, la mancata prova del mobbing nei confronti di una lavoratrice – spiega la Cassazione – non implica automaticamente l’esclusione da responsabilità datoriale, per violazione dell’obbligo di garantire salute e sicurezza. E come già indicato dalla Corte nella sentenza 5061/2024, proprio i fatti emersi in corso di causa possono evidenziare:

un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure possibili e necessarie, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, fermo restando che grava su quest’ultimo l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie a prevenirlo.

Non solo. Anche nella sentenza 3692/2024, la Cassazione aveva spiegato che, anche quando non sia configurabile il mobbing per la mancanza di un intento persecutorio, c’è violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore:

  • consenta, anche involontariamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute;
  • attui gesti, anche in sé non illegali e isolati, ma in qualche modo in grado di indurre disagio, stress e danno alla salute.

La doppia “arma” a favore del dipendente leso sul piano della salute

Anche quando i fatti di causa non dimostrano il mobbing, possono comunque inchiodare il datore alla responsabilità risarcitoria di cui all’art. 2087 c.c. In termini pratici, questo vuol dire che il lavoratore che non riesce o non può provare l’intento persecutorio tipico del mobbing, può però dimostrare la violazione della regola civilistica. Ecco perché, avendo erroneamente escluso la responsabilità datoriale, la pronuncia di merito è stata cassata. L’azienda non aveva fatto abbastanza per proteggere la dipendente e per questo va punita.

D’altronde, questa sentenza è della stessa linea della precedente e costante giurisprudenza (Cassazione 93/2018), secondo cui è meritevole di accoglimento anche la richiesta risarcitoria per i danni alla salute, patiti per sovraccarico di lavoro, escludendo che la carenza di organico potesse giustificare un maggior impegno.

Che cosa cambia

La sentenza n. 10730 ci ricorda che ogni datore di lavoro deve o dovrebbe sempre rispettare gli stringenti doveri in tema di prevenzione del disagio psicologico e delle patologie da stress lavoro-correlato. Infatti, al di là della presenza di atti di mobbing (per i quali si può essere condannati anche per responsabilità aggravata), l’inerzia o la sottovalutazione di uno stressante clima interno possono causare una responsabilità diretta per danni, con connesse potenziali ricadute sia in termini economici che di reputazione.

Oltre a stimolare l’adozione di misure e tecniche di prevenzione del rischio fisico, l’art. 2087 c.c. impone di prevenire e rimuovere condizioni ambientali o organizzative in grado di generare ansia, agitazione, isolamento, frustrazione, demotivazione e altre forme di malessere psichico, che possono sfociare anche nel burnout. Se violato, l’art. 2087 Codice Civile comporta una responsabilità del datore di lavoro sotto il profilo civilistico e risarcitorio.

Nel caso visto sopra, il principio giurisprudenziale è stato applicato a favore di chi, assegnato a nuove mansioni complesse, senza formazione e senza ridurre gli incarichi precedenti, ha poi sviluppato una forte ansia documentata. Il datore è responsabile per non aver tutelato la salute mentale di un dipendente.

Concludendo, il benessere organizzativo in azienda non può di certo essere un elemento accessorio o secondario, ma un perno su cui far ruotare la crescita aziendale. Leadership improntata all’ascolto, equa suddivisione dei carichi di lavoro, formazione mirata, prevenzione del conflitto e coesione del team sono tutti elementi in grado di migliorare l’ambiente sul piano psicologico e relazionale. Ne beneficeranno i rapporti umani e, di seguito, anche la produttività.