La storia di Mark Kerr, leggenda delle arti marziali miste e dell’Ultimate Fighting Championship, arriva al Lido con The Smashing Machine. Diretto da Benny Safdie e interpretato da uno straordinario Dwayne Johnson, qui nel ruolo più intenso della sua carriera, ed Emily Blunt, il film non si limita a raccontare la parabola sportiva di uno dei più grandi lottatori di sempre, ma ne svela le fragilità più intime, il lato vulnerabile dietro l’immagine dell’uomo macho degli anni ’90 e la relazione complessa con l’allora compagna Dawn Staples.

Alla conferenza stampa di Venezia, accanto al regista, Johnson e Blunt hanno ripercorso il viaggio umano e artistico che li ha portati a raccontare questa vicenda. E seduto in prima fila al Lido c’era anche il vero Mark Kerr, testimone commosso ma felice di un film che mette in scena la sua vita come mai era stato fatto prima. Inizia Dwayne Johnson: «Sono molto emozionato, è la mia prima volta a Venezia. È tutto davvero surreale. La vita di Mark ha cambiato anche le nostre, di sicuro la mia. Non si tratta di cosa si vince o si perde, ma della pressione. Cosa succede quando la vittoria diventa il nemico?». Perché ambientare la storia negli anni ’90? Risponde Benny Safdie: «In quel periodo c’erano tante arti marziali e una grande comunità intorno. C’era una contraddizione tra il mondo della lotta e il senso di appartenenza. Lo sport non era molto quotato, ma in alcuni posti aveva già un grande seguito: negli Stati Uniti, in Giappone, in Brasile. E poi c’erano personalità enormi, come quella di Mark».

Emily Blunt, che nel film interpreta Dawn, l’amore tormentato di Kerr: «Per me è stata una sorpresa entrare in un mondo così mascolino e scoprire questa figura femminile così complessa. Allora molto accadeva dietro le quinte e non era ben chiaro cosa volesse dire vivere con un lottatore. Ho conosciuto la vera Dawn, mi ha spiegato la natura rischiosa di quel mondo, il loro rapporto di amore e di grande rispetto. Sono entrata in relazioni che sembrano scritte per il cinema, ma in realtà sono persone vere. Una coppia può cambiare nel giro di un’ora». Si inserisce Johnson: «Mark è stato uno dei più grandi lottatori, ma questa è soprattutto una storia d’amore. Lotta per professione, ma la lotta è dentro di sé. È molto fortunato oggi a essere vivo, e lo sa bene. All’inizio lottava per sopravvivere, per fare soldi. Poi ha capito che, dopo aver combattuto contro le dipendenze e per salvare il rapporto con la compagna, non era riuscito a vincere. Non solo ha perso, ma ha perso tutto. Ma va bene così. La vita continua e si va oltre».

Una lezione che l’attore dice di aver fatto sua: «Questo film per me è stato un percorso interiore. Da molto tempo volevo fare un lavoro così. A Hollywood si parla spesso di botteghino, e quello ti può relegare in una categoria: “tu fai questo e basta”. Io l’avevo capito bene. Mi piace fare quei film, mi diverto, ma la cosa più importante era quella vocina che mi diceva: “E se ci fosse qualcosa di diverso? E se fossi in grado di fare altro, almeno per me stesso?”. A volte sono le persone che amiamo, come Emily o Benny, a dirci: “Tu lo puoi fare”. A Hollywood non devo dimostrare nulla, è solo per me stesso. Un paio di anni fa mi sono chiesto: “Sto vivendo il mio sogno o quello degli altri?”. Fino a oggi ero spaventato, ma questa opportunità mi ha mostrato che c’è una forza nella vulnerabilità».

Poi il ricordo personale di Dwayne Johnson: «Io adoravo il wrestling, mi divertiva, ma era uno sport molto televisivo. Quando lottavo alla fine degli anni ’90 ho conosciuto Mark: per noi era un eroe e avevo grande rispetto per la sua carriera. Anni dopo, la vita ha chiuso per me il cerchio». Emily Blunt sottolinea invece il cuore del racconto: «Il film tratta la vulnerabilità degli uomini. Negli anni ’90 dominava l’idea dell’uomo macho, amplificata in quell’arena. Ma questa storia non è su un uomo che lotta: è sugli uomini spezzati dalla necessità di mantenere quell’immagine».