di
Danilo Taino
Il leader indiano spinto dal ricatto Usa e dalla rivalità per la guida del Sud globale
Qualcosa Donald Trump deve avere sbagliato. Vuole limitare l’influenza della Cina nel mondo, vuole separare Mosca da Pechino, vuole che l’India non compri più petrolio russo a prezzi scontati.
Dal summit che si è svolto domenica e lunedì a Tianjin, Repubblica Popolare, gli è stato spedito un messaggio: nessuno dei suoi desideri si sta realizzando. Non solo: gli è stato anche mostrato che il Paese da vent’anni baluardo delle strategie americane per contenere l’espandersi dell’egemonia cinese in Asia, cioè l’India, piuttosto di inchinarsi agli ordini di Washington si accomoda, tra sorrisi e strette di mano, nello show organizzato da Xi Jinping.
Non è che dall’incontro della Shanghai Cooperation Organization siano uscite grandi decisioni. Si è trattato in buona parte di incontri bilaterali tra leader che vedono gli Stati Uniti come il fumo negli occhi e, soprattutto, di una passerella di abbracci per dire esplicitamente a Trump e alla sua amministrazione che un bel pezzo di mondo si sta organizzando per mettere fine all’ordine internazionale imperniato sulla Pax Americana. Parole di Xi in persona. Il punto forte della rappresentazione cinese è stata proprio la presenza nella recita, con ruolo d’onore, del primo ministro indiano Narendra Modi.
Non che Delhi non abbia qualcosa di cui rispondere a livello internazionale. Il fatto che, da quando Vladimir Putin ha aggredito l’Ucraina, acquisti greggio a mani basse e così aiuti di fatto a finanziare l’invasione è qualcosa che non può essere semplicemente spiegato come interesse nazionale, senza considerare le conseguenze diplomatiche che ciò avrebbe comportato. Ciò nonostante, nei confronti dell’India il presidente americano ha dimostrato di non essere nemmeno lontanamente quel mago del deal, degli accordi, che si vanta di essere. Chi sceglie di entrare in una disputa con qualcuno, deve sapere fin dall’inizio fin dove quel qualcuno può arrivare.
Trump ha invece prima imposto agli indiani dazi del 25% per ritorsione alle barriere che Delhi impone a sua volta sul commercio, citando esplicitamente i prodotti agricoli. Il fatto è che se Modi smettesse di proteggere il settore agricolo, dal quale dipende la sussistenza del 60% degli indiani, sarebbe un politico senza più futuro. Alla stessa maniera, se obbedisse all’ordine di Washington di non comprare più petrolio russo, pena un altro 25% di dazi, Modi darebbe un segno di debolezza che per lui sarebbe devastante, in un Paese dove il nazionalismo è il tratto politico più popolare.
In altri termini, il primo ministro indiano non poteva accettare il diktat americano senza suicidarsi. Stretto tra subire le conseguenze dei dazi al 50% e ribellarsi, ha scelto di andare a stringere la mano a quello che è considerato il primo avversario dall’establishment americano, Xi. Non andava in Cina da sette anni, lo ha fatto ora: qualcosa di più di un calcio negli stinchi a Trump.
Quello tra Delhi e Pechino è un riavvicinamento? Adesso India e Cina sono, come ha detto Xi, «partner e non avversarie»? Di certo, l’incontro di Tianjin non è stato l’apertura di un percorso che potrebbe sfociare in un’alleanza. Innanzitutto, perché un cardine non discutibile della politica estera di Delhi è che si fanno amicizie, si stringono partnership su questioni specifiche ma di alleanze non se ne parla. Con nessuno. L’India vuole essere una grande potenza, ritiene di essere sulla strada giusta perché il mondo lo riconosca: e una grande potenza non ha bisogno di alleanze finché non è lei a stabilirle. In secondo luogo, perché — oltre alle dispute sulla frontiera himalayana che di tanto in tanto diventano scontri violenti tra i militari dei due Paesi — Delhi e Pechino hanno interessi strutturalmente diversi in Asia e nel bacino Indo-Pacifico, dove nei prossimi anni si deciderà probabilmente chi avrà conquistato l’egemonia.
L’India sopporta molto male l’espansione cinese nei «suoi» mari e nelle vicinanze, che si tratti dello Sri Lanka, delle Maldive, del Myanmar per non dire del Pakistan.
C’è anche un’altra motivazione alla base del viaggio di Modi in Cina, non secondaria. Delhi e Pechino sono in aperta competizione per la leadership del cosiddetto Sud globale, cioè dei Paesi emergenti che non si allineano agli Stati Uniti ma nemmeno del tutto a Pechino. Il confronto avviene per lo più nell’ambito dei Brics. Ma Modi è andato a Tianjin anche per evitare che, davanti alla ventina di leader delle nazioni del Sud presenti, lo show fosse solo di Xi Jinping. Trump vede tutto in tv.
2 settembre 2025
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