Il Caffè del rientro è affidato alla voce di R.S., un lettore che in questi giorni di controesodo si è ritrovato a bordo dell’utilitaria di famiglia, braccato da un Suv. La strada era stretta e cedere il passo significava correre il rischio di uscire dalla carreggiata, ma il Suv non voleva saperne di rimanere indietro. Così ha puntato addosso all’utilitaria i suoi occhiacci abbaglianti e le si è avvicinato, fin quasi a sfiorarle il paraurti. 

Al riparo delle ruote alte e dei vetri oscurati, il guidatore sembrava una potenza impersonale. Al contrario del pilota dell’utilitaria, che con il sedere rasoterra e le fiancate leggere si scopriva vulnerabile e però consapevole della sua debolezza, almeno quanto l’altro era accecato dalla sua forza. A quel punto, nella testa del lettore è scattata proditoria la metafora. Il Suv che avanzava come uno schiacciasassi contro di lui, convinto che tutti gli dovessero cedere il passo per diritto di carrozzeria, altri non era che Trump. Mentre la sua vecchia ed elegante macchinetta, che con tenacia discreta cercava di non farsi travolgere, era o dovrebbe essere l’Europa.



















































«Così» scrive R.S., «mentre il Suv scalpita dietro di me, io continuo per la mia strada. Accetto la sproporzione, sopporto la pressione. E in questo atto minimo di resistenza, forse, c’è già un modo di essere liberi». 

Non è solo questione di cavalli, la vita. La tenuta di strada dipende di più dall’assetto. E prima o poi anche i Suv finiscono dal meccanico.

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2 settembre 2025