di
Marta Serafini
Dal naufragio costato la vita al bambino curdo siriano, nel Mediterraneo sono morte 28 mila persone. Di queste, 3.500 sono bambini
Era il 2 settembre 2015 quando il corpo di Alan Kurdi, la maglietta rossa e i calzoncini blu, venne ritrovato a faccia in giù sulla spiaggia di Bodrum. Il bambino curdo siriano, 3 anni, originario di Kobane, era partito con la famiglia nella notte a bordo di un gommone sovraffollato alla volta dell’isola greca di Coo. Come tutti gli altri passeggeri indossava un salvagente finto, nonostante suo padre avesse pagato per quel viaggio di pochi minuti più di 5 mila dollari.
I corpi di Alan e di un’altra bambina furono scoperti all’alba da un barista in servizio presso un hotel di fronte alla spiaggia. Mehmet Çıplak, il primo poliziotto intervenuto sulla scena, descrisse il ritrovamento come qualcosa che lo aveva «distrutto nel profondo». Raccontò, vedendolo a faccia in giù, di aver «sperato che il bambino fosse vivo» per poi sentirsi annientato dopo averlo girato e averne constatato la sua morte. Un’immagine ben più forte di quella, quasi delicata, scattata dalla fotografa Nilüfer Demir che mostrava Alan come se fosse addormentato e che divenne comunque il simbolo del fallimento delle politiche migratorie europee.
Come allora, eravamo appena tornati dalle vacanze trascorse su quelle stesse spiagge su cui si era infranto il sogno di salvezza di un’intera famiglia. All’epoca erano la guerra in Siria e gli assalti dell’Isis a costringere migliaia di genitori a trascinare i bambini sui gommoni e sui barconi per metterli in salvo. In migliaia morirono nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ma in migliaia riuscirono nell’impresa trovando in Germania, Danimarca, Svezia un porto sicuro dove ricominciare a vivere.
Non fu così per la famiglia Kurdi che aveva provato invano ad avere asilo politico in Canada. La loro storia fece letteralmente il giro del mondo. Channel 4, durante il consueto messaggio natalizio, anziché mandare in onda il messaggio di auguri della Regina Elisabetta, chiamò Abdullah Kurdi, il padre sopravvissuto, come oratore, che disse: «Se una persona sbatte la porta in faccia ad un’altra, questo è veramente difficile. Ma quando una porta è aperta, essa non si sente più umiliata. In questo periodo dell’anno, vorrei chiedere a tutti voi di pensare al dolore di quei padri, quelle madri e quei bambini che stanno cercando pace e sicurezza. Noi vi chiediamo solo un po’ di comprensione. Mi auguro che l’anno prossimo la guerra in Siria finisca, e che la pace regni sovrana sul mondo».
Oggi, dieci anni dopo, non solo la pace non regna sovrana sul mondo. Ma quello stesso mare si è trasformato in una tomba che, oltre a trattenere migliaia di corpi mai restituiti alla terra, è diventato una trappola per i 2 milioni di gazawi che non possono abbandonare la Striscia. E questo perché in dieci anni non solo non siamo stati in grado di trovare un sistema che permetta ai rifugiati di varcare confini in modo legale senza rischiare la vita ma abbiamo anche permesso che due nuove guerre, quella in Medio Oriente e quella in Ucraina, sacrifichino ogni giorno altri migliaia e migliaia di Alan.
«Chi scappa dalla sua casa non ha quasi mai altra scelta», spiegò dieci anni fa al Corriere della Sera Tima Kurdi, la zia Alan che mai aveva conosciuto il nipote ma la cui vita è stata egualmente segnata da quel naufragio sulle coste turche. E non hanno scelta nemmeno i gazawi intrappolati, stritolati e ostaggio sia di Hamas che dell’esercito israeliano che li affama e li uccide. Così come non hanno scelta i genitori ucraini che devono rinchiudersi coi loro figli nei bunker per salvarsi dai raid russi.
Il Mediterraneo è mare crudele, profondo, avido di vite. In questi dieci anni sono 28 mila le vittime registrate nei naufragi sulle diverse rotte migratorie secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Una parte significativa di queste sono bambini, con circa 3.500 minori morti nella traversata. Come se un intero paese fatto di Alan con la maglietta rossa e i calzoncini rossi scomparisse all’improvviso. Quasi uno al giorno per 10 anni.
«”Mai più” abbiamo sentito nel 2015, l’ho sentito innumerevoli volte. E cosa è cambiato? Quante anime innocenti sono state perse in mare da allora?». Cosa avete provato quando avete visto quell’immagine di mio nipote? Cosa avete detto, cosa avete fatto? Io, quando ho saputo dell’annegamento di mio nipote, sono caduta a terra piangendo e urlando più forte che potevo perché volevo che il mondo mi sentisse! Perché loro? Perché adesso? E chi sarà il prossimo?», ha detto ancora la zia di Alan l’anno scorso in occasione della giornata mondiale del rifugiato.
Per cercare di ovviare alla fine della missione Mare nostrum, la società civile europea in questi anni ha creato una flotta di navi delle ong per provare a salvare qualcuno di quei migliaia di Alan. Osteggiate dai governi, spesso tacciate di essere strumenti politici, quelle imbarcazioni – una di queste è stata proprio dedicata e intitolata ad Alan – hanno solcato il mare anche in mezzo alle tempeste e ai pericoli.
Questo perché il Mediterraneo è un mare che sa anche essere generoso, oltre che crudele: ne è esempio in queste ore la mobilitazione internazionale per la Sumud Flottilla che sta salpando dai diversi porti alla volta di Gaza. Genova, Tunisia, Sicilia, Spagna, Grecia: come se in qualche modo dopo dieci anni, almeno in parte, dalla riva arrivi un segno di speranza, un messaggio in bottiglia per dire che non è più accettabile che tutti gli Alan Kurdi del nostro mondo e del nostro mare muoiano annegati o di fame.
2 settembre 2025
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