Il 2 settembre 2005 diventò presidente: mancavano palloni e magliette e c’era chi voleva un solo club in città…


Stefano Agresti

Giornalista

2 settembre 2025 (modifica alle 00:09) – MILANO

Quando Urbano Cairo salvò il Torino, vent’anni fa, il Filadelfia era ridotto in macerie. Dello stadio che aveva accompagnato i trionfi di una tra le squadre più grandi della storia, e che poi era diventato la culla di tanti giovani talenti granata, non era rimasto praticamente nulla. I vecchi tifosi andavano là in pellegrinaggio, sospiravano di malinconia o s’infuriavano: possibile che la leggenda fosse stata calpestata così? Raccontavano di Valentino Mazzola, alcuni, di quando si tirava su le maniche e allora non ce n’era per nessuno, oppure di Pulici e Graziani, i gemelli del gol dello scudetto del ‘76; altri, meno poetici o forse solo più giovani, ricordavano le pizzette che Bobo Vieri ragazzino divorava nel baretto davanti al Fila, una dopo l’altra, alla fine dell’allenamento con la Primavera.

macerie—  

Anche il Toro era ridotto in macerie, vent’anni fa. Si parlava di pubblici ministeri e non di gol, di falsi in bilancio e non di falsi nueve, cioè centravanti. La gestione Cimminelli aveva portato il club al collasso a conclusione di un lungo periodo sofferto, con presidenti finiti nel mirino della giustizia, incertezze sul presente e sul futuro della società, ansie e umiliazioni. E qualcuno, dopo il fallimento del Toro, aveva il progetto di una sola squadra in città. Cairo divenne presidente il 2 settembre del 2005, c’era una rosa sparuta con nove giocatori e cinque ragazzi della Primavera, l’allenatore era Stringara (il primo scelto dal nuovo proprietario sarebbe poi stato De Biasi) e non c’era traccia neppure di palloni e magliette. Quando lo prese, il Torino stava per affrontare il settimo campionato di Serie B di quei dieci anni. Era, insomma, nel periodo più nero della sua storia.

le tre camicie—  

Fu Sergio Chiamparino, nell’agosto di vent’anni fa, a chiedere aiuto a Urbano Cairo. Condividevano la passione per il club granata e il sindaco di Torino volle incontrarlo per convincerlo a prendere in mano la società, a tirarla fuori dai guai, a restituirle sicurezze e dignità. Cairo stava partendo per Forte dei Marmi, gli promise di pensarci durante le vacanze. L’amore per quei colori è sempre stato profondo, gli è stato trasmesso in famiglia, mamma e papà erano tifosissimi del Torino, però l’operazione era complessa e l’impegno gravoso soprattutto per chi il calcio lo aveva sempre vissuto solo da appassionato (e, in gioventù, da calciatore, “ero un’ala destra sgusciante ma ero un po’ troppo emotivo”). Quando Chiamparino gli telefonò di nuovo mentre era in Versilia, Cairo ne parlò con la moglie. Ha raccontato in un’intervista alla Gazzetta dello Sport: “Le dissi: faccio un salto a Torino, il sindaco continua a chiamarmi, gli spiego che non me la sento di prendere la società e rientro subito qui. Però vide che in valigia mettevo tre camicie. Mi chiese: scusa, ma non dovevi andare e tornare, perché tante camicie? Quell’estate a Forte dei Marmi non mi hanno più visto”.

italiani—  

Urbano Cairo è diventato il presidente più longevo nella storia del Torino, ha superato i diciannove anni di Orfeo Pianelli. Pochi altri sono rimasti alla guida di società importanti per tanto tempo nel nostro calcio: Ferlaino al Napoli e Berlusconi al Milan sono arrivati a trentuno anni; due presidenti ancora in carica, De Laurentiis e Lotito, hanno preso in mano Napoli e Lazio un anno prima rispetto a Cairo, nel 2004, e anche loro sono riusciti a rimediare a situazioni societarie ai confini del disastro. Proprietari italiani che hanno tracciato una strada virtuosa proprio mentre i club in mani straniere, tra fondi di investimento e simili, diventano la maggioranza, undici contro nove. Capita che ci siano spesso contestazioni, ma succede un po’ dappertutto, anche dopo uno scudetto vinto, forse perché si hanno pretese superiori a quelle che possono permettere i fatturati (determinati ormai soprattutto dai diritti televisivi), però sono tanti – anche se magari silenziosi – quelli che comprendono e apprezzano gestioni attente, sicure, proiettate a proteggere il futuro.

Il Fantacampionato Gazzetta è tornato, con il montepremi più ricco d’Italia! Iscriviti e partecipa

vent’anni—  

In questo periodo, il Torino è diventato un’altra cosa. Il Filadelfia è un po’ il simbolo del cambiamento: è rinato dopo quasi vent’anni di polemiche e promesse tradite, adesso è una struttura di allenamento sempre più moderna, così il popolo e i calciatori granata continuano a calpestare la terra sulla quale è stata costruita la storia ultracentenaria della società. Si è investito per agevolare il lavoro della squadra di oggi valorizzando la forza del passato. E’ ormai attivo – e deve essere completato entro pochi mesi – il centro sportivo Robaldo, la nuova casa del settore giovanile: è lì che crescono i talenti del futuro, nel solco della tradizione del Torino. Del resto tra i fiori all’occhiello dell’era-Cairo ci sono i risultati eccellenti del vivaio, dal ritorno della Primavera allo scudetto alla conquista di Coppa Italia e Supercoppe, fino ai campionati vinti anche nella scorsa stagione dall’Under 18 e dall’Under 17. E che ha portato, nell’ultimo campionato, sei ragazzi all’esordio in A. La solidità economica consente adesso di avere ambizioni sportive in crescita. Il Torino gioca in Serie A da quattordici stagioni consecutive, la maggior parte concluse nella colonna di sinistra della classifica, ed è tornato per due volte in Europa (la vittoria nel mitico San Mamés di Bilbao è un’impresa mai riuscita a una squadra italiana). Non è più l’era delle follie e dei fallimenti, il calcio oggi deve essere sostenibile: storia e solidità, Filadelfia e futuro garantito.