Faccio subito un coming out genitoriale: negli ultimi mesi ho visto i due cartoon di Oceania così tante volte da saper cantare a memoria You’re Welcome e Can I Get a Chee Hoo?, e recitare tutte le battute di Maui, il semidio tatuato con i riccioli che sembra un wrestler (chi sa, sa). Ho pure il pupazzetto a casa. Ecco, ritrovarmelo davanti in versione live action — Dwayne “The Rock” Johnson, la stessa montagna di muscoli trasformata in action figure vivente — prima sullo schermo in The Smashing Machine (dal 19 novembre al cinema con I Wonder Pictures) e poi vederlo piangere a dirotto durante la standing ovation della Sala Grande (quindici minuti, per chi crede ancora all’applausometro da festival; anche se l’affetto era reale) è stata una visione quasi mitologica: il semidio Disney che si fa mortale, fragile, davanti al pubblico di Venezia.

Il film di Benny Safdie (per la prima volta senza il fratello Josh) racconta la parabola vera di Mark Kerr, pioniere e leggenda dell’UFC, la più grande organizzazione di arti marziali miste, oggi fabbrica di milioni. Sul ring è una macchina da pugni e calci, fuori prova a non perdere il controllo. Finché non succede l’impensabile: perde un incontro. E diventa la materia perfetta per il cinema dei Safdie: un loser.

È la presenza fisica del personaggio a ipnotizzare. Denti bianchissimi, riccioli neri (!), sopracciglia che sembrano scivolare direttamente nella fronte, un corpo talmente iper-muscolato da risultare quasi ingobbito. E non è solo estetica: Kerr parla come uno che ha imparato a esprimersi a un seminario motivazionale, con una gentilezza calibrata, da manuale, anche nel salotto di casa. È un’esteta, un pignolo, un precisino: a un certo punto taglia personalmente con un coltello un’escrescenza del suo cactus saguaro nel giardino perché deve assomigliare a quelli dei cartoni di Willy il Coyote. Un uomo che sembra la caricatura dell’“all-American god-jock” e che invece diventa materia tragica.

Ed è qui che Johnson sorprende, e punta (giustamente) direttissimo all’Oscar: meno wrestler di plastica e più corpo dolente, quasi irriconoscibile, come se i suoi bicipiti fossero stati costretti a indossare la fragilità di Mickey Rourke in The Wrestler, ma senza mai strafare. The Smashing Machine ha un po’ della stessa cupezza, della malinconia da fine corsa. Ma dialoga anche con la grammatica dello sport movie, a partire da Rocky: lì il sudore era redenzione, qui è tossina che corrode. Eppure, il bello del film è la sua antiretorica di fronte al genere. Ci sono tutti gli ingredienti che ti aspetti da un lungometraggio sportivo: la dipendenza, l’avversario stronzo, la caduta, la bromance con un collega, la risalita, la relazione tossica con la compagna (una tamarrissima Emily Blunt). Ma ogni cliché viene smorzato, riportato a terra. Nessuna agiografia, niente epica: solo realtà aumentata, fatta di lividi, silenzi, stanchezza.

Blunt, nei panni di Dawn, non è la spalla di The Rock ma la controforza feroce che gli scava dentro più dei colpi sul ring: le loro scene sono scontri verbali che pesano quanto i pugni. La cinepresa di Maceo Bishop incolla i corpi ma registra anche i vuoti, i gesti, le pause, la fatica che cala come un sipario.

È la prima regia di Safdie da solo, e si sente: meno isteria da Diamanti grezzi, più controllo, più ossessione per il dettaglio. Forse meno fuochi d’artificio, ma più maturità. Good Time aveva trasformato Robert Pattinson da vampiro teen a attore serio, Uncut Gems aveva fatto lo stesso con Adam Sandler, da comico a volto d’auteur. Qui la metamorfosi è ancora più clamorosa: The Rock, il jock pop per eccellenza, diventa interprete drammatico. È il cinema umanistico dei Safdie, che prende i corpi più improbabili e li schiaccia contro la realtà, fino a rivelarne l’anima.

Alla fine, The Smashing Machine non racconta una vittoria ma la lotta disperata di un uomo che combatte contro gli avversari, certo, ma prima di tutto contro se stesso. E che perde, spesso. È questo che resta: non la gloria, ma la fragilità dietro il gigante. Il resto sono applausi, lacrime e un The Rock che, per una volta, sembra davvero umano.