di
Cristina Ravanelli
Alta in gioventù, in calo nella mezza età, in risalita verso i 50 anni: la «curva a U» della felicità non esiste più. Secondo un’ampia ricerca Usa tra gli under 25 cresce il malessere. Lo psicopedagogista Stefano Rossi spiega le ragioni
Una volta il benessere emotivo aveva un andamento a forma di U nel corso della vita: la curva della felicità saliva durante l’infanzia e la gioventù, considerati momenti gioiosi e spensierati, calava durante la mezza età e risaliva nuovamente verso i 50 anni per rimanere stabile sino alla vecchiaia, regalando nell’ultima fase della vita una serenità che aveva il sapore della conquista. Oggi il trend è cambiato. La conferma arriva dal Behavioral Risk Factor Surveillance System (Brfss), un programma sviluppato negli Stati Uniti dal Centers for Disease Control (Cdc), basato su 400mila interviste all’anno, realizzate tra il 1993 e il 2024, per monitorare lo stato di salute della popolazione. Tra il 2019 e il 2024, la classica forma a U scompare: il rapido aumento del malessere, soprattutto prima dei 25 anni, ha modificato radicalmente il profilo del ciclo di vita della felicità. Secondo i dati, la percentuale di giovani infelici è più che raddoppiata per i maschi (dal 2,5% nel 1993 al 6,6% nel 2024) e quasi triplicata per le femmine (si passa dal 3,2% al 9,3%). L’infelicità cresce anche tra le persone di mezza età ma con aumenti meno significativi mentre negli anziani si registrano i livelli più bassi. Uno scenario negativo per i nostri ragazzi: quali sono le cause? Lo abbiamo chiesto a Stefano Rossi, psicopedagogista che da vent’anni lavora con bambini e adolescenti, autore di numerosi libri, tra cui Genitori in ansia (Feltrinelli), tra pochi giorni in libreria.
Dottor Rossi, secondo la ricerca l’aumento dell’infelicità tra i giovani ha origine prima del Covid: non è tutto colpa della pandemia quindi se i ragazzi non stanno bene?
«Il Covid è stato un capro espiatorio, una sorta di riduttore di complessità che abbiamo usato come scusa per cercare una rassicurazione. Infatti, passata l’emergenza sanitaria, il problema è rimasto: chi lavora con gli adolescenti sa che la sofferenza mentale è in aumento».
Quali sono le principali cause di questo malessere?
«Quella di ieri era una società verticale: i genitori sognavano di crescere un figlio retto e disciplinato. Oggi viviamo nella società orizzontale della prestazione, una società del “tutti contro tutti”, dove il mondo non si divide più tra “persone corrette” e “persone non corrette” ma tra “vincenti” e “perdenti”. I sogni dei genitori sono cambiati: non basta avere un bravo bambino, un bravo adolescente; bisogna avere un figlio vincente, una “medaglia d’oro”. In questo modo, però, l’autostima diventa più fragile: bisogna essere perfetti, belli, magri, popolari».
Con quali conseguenze per gli adolescenti?
«Per i nostri ragazzi non c’è più il tribunale della colpa, di cui parlava Freud, ma c’è la lama del senso di inadeguatezza, cioè il terrore di non essere mai abbastanza. Il senso di colpa attacca il sistema morale: sono buono o sono cattivo? Il senso di inadeguatezza attacca l’autostima: sono degno o non sono degno? E questo rende più fragili: come si può essere felici se già nell’autostima, che è l’insieme dei giudizi che un individuo dà di sé stesso, ci si flagella?».
Quanto pesa la questione dei social? Sono sempre più numerose le prove che identificano un legame tra l’aumento del malessere tra i giovani e l’uso intensivo di Internet e smartphone.
«I social sono tossici perché funzionano con il modello delle metriche. Mi spiego. Questa è la prima generazione di adolescenti che ha imparato dai video, visti su YouTube da bambini, che un messaggio è potente quando ha delle metriche spettacolari: tanti like, tanti views. Una volta, durante un incontro, un ragazzino di undici anni fissava le mie scarpe: stava applicando su di me il trend di TikTok “Quanto costa il tuo outfit”».
Sui social il concetto di flexare, cioè di ostentare la propria ricchezza, è predominante.
«Sì, è così. E infatti tra le ansie della nuova generazione c’è il corpo, il denaro, la popolarità. Oggi esisti se la tua immagine è riflessa nello sguardo degli sconosciuti, ma tutte le volte che non ricevi un like, o un commento, la tua autostima va in frantumi. E questo meccanismo negativo colpisce in particolare le ragazze».
In che modo?
«Tante ricerche dimostrano che sui social le ragazze osservano altre ragazze, si confrontano con modelle bellissime o addirittura con corpi perfetti ma prodotti dall’Intelligenza artificiale e quindi sempre meno distinguibili. I maschi, invece, guardano le ragazze e un po’ di tutto. Inoltre, rispetto alla quantità di tempo passato online, le femmine frequentano principalmente social come Instagram mentre i coetanei passano il tempo anche con i videogiochi».
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Un altro fattore di rischio è il lavoro, spesso precario e mal pagato. Uno scenario che offre ai giovani meno garanzie rispetto a quelle su cui hanno potuto contare i genitori.
«La felicità si lega al concetto di autostima, l’autostima si lega al concetto di autoefficacia: sento di avere un valore nella misura in cui capisco di poter agire nel mondo attorno a me. Con un mercato del lavoro che erode l’autoefficacia è inevitabile che diminuisca anche l’autostima e di conseguenza la felicità. Da un lato i giovani vedono in Rete ragazzini della loro età con milioni di follower e guadagni stratosferici, dall’altro si confrontano con un mercato che offre loro poche garanzie. Ci sono ragazzi che abbandonano la scuola al momento del primo stage: scoprono che gli stipendi sono bassissimi, un bagno di realtà a cui non sono preparati».
Durante l’adolescenza non è fisiologica una certa dose di infelicità e preoccupazione? In che modo gli adulti possono aiutare i giovani in questa fase della vita?
«Di base gli adolescenti sono dei filosofi. Si interrogano sul senso dell’esistenza, sulla morte, sulla bellezza, sull’amore. A livello educativo noi adulti dobbiamo “pensare con” gli adolescenti e non “sugli adolescenti”. Dobbiamo fare quello che faceva Socrate, che nella Polis parlava con i giovani e chiedeva loro: che cos’è la felicità? Che cos’è la bellezza? Smontiamo insieme i modelli tossici da cui sono bombardati. Così i ragazzi, essendo appunto dei filosofi ma un po’ abbandonati a sé stessi, possono trovare delle chiavi di lettura e mettere in campo la capacità di ribellione contro quei modelli. Questo è il lavoro da fare con loro».
Qual è il compito più difficile per un genitore?
«Insegnare ai propri figli a volersi bene. I ragazzi devono trovare una loro voce interiore che li aiuti a vedere l’altro lato delle cose, imparare a ripensare i pensieri. In questo modo possono uscire dall’angolo dove, credendo di non essere all’altezza del modello di perfezione imposto, a volte s’infilano senza vedere più via d’uscita».
Proviamo a interpretare i dati della ricerca da un’altra prospettiva: verbalizzare il malessere può essere letto anche come una conquista?
«Sì, è un ottimo segnale. Uno degli elementi che rende migliore questa generazione rispetto alle precedenti è la capacità di chiedere aiuto. Il coraggio di ammettere di non essere felice quanto meno rende consapevoli e trovare qualcuno disposto a dare una mano può diventare un’occasione per evolversi. Spesso gli adulti si dimenticano che l’adolescenza è un’età feroce: i ragazzi sono chiamati dalla psicobiologia a uccidere, in modo simbolico, il bambino che sono stati e che sentono di non poter più essere. Amo i giovani e amo questa generazione: hanno una grande sensibilità e noi adulti non dobbiamo sprecare l’opportunità di valorizzarla mettendo loro delle etichette».
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3 settembre 2025
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