VENEZIA – «È come se avessero messo in galera anche me nell’anima», dice la veneziana Anna Negri nel suo incontro-scontro con il padre. Più che un documentario, “Toni, mio padre” è una seduta psicanalitica dove una figlia, diventata regista, accusa il proprio genitore, ormai novantenne, di averla abbandonata, lasciata sola scegliendo di favorire la passione e l’impegno politico.

«Da quando avevo quattordici anni non ho più potuto vivere accanto a mio padre – racconta – sono stata travolta direttamente, come migliaia di altre persone, dalle inchieste. C’è nel mio film tutta la difficoltà di una relazione genitoriale che mi ha quasi costretta ad avere paura del mio cognome».

Professore di Scienze politiche all’università di Padova, ideologo della sinistra extra-parlamentare (come si autodefiniva all’epoca), tra i fondatori dapprima di Potere operaio e poi di Autonomia operaia, il padovano Toni Negri venne arrestato il sette aprile 1979 con l’accusa di essere il capo occulto del terrorismo italiano. Due anni di carcerazione preventiva lo tennero lontano dalla figlia e dalla moglie Paola Meo sposata con rito civile a Padova e non a Venezia per non dare “scandalo” («Non puoi immaginare che scandalo il matrimonio civile all’epoca, siamo stati costretti ad andare a Padova», ricorda Negri alla figlia nel film). Poi l’elezione a deputato nelle liste radicali e infine, dopo il voto del Parlamento che eliminava la sua immunità parlamentare, la lunga latitanza, quattordici anni, a Parigi, dove si ricostruirà una famiglia.

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