di
Manuela Croci
L’ex canoista: «Sentire la voce di Galeazzi mi mette i brividi. Quando mio figlio Riccardo gareggiava c’era chi faceva paragoni e la cosa non mi piaceva. Oggi mi alleno poco: lo faccio solo per mangiare senza sensi di colpa»
Ricorda la prima volta che è salito su una canoa?
«1982, ero sul mio lago, a Lecco. Sono andato alla Canottieri e mi hanno dato un modello da fluviale, più facile di quelle da velocità che poi ho imparato a usare negli anni. La sensazione che ho provato quando mi sono trovato con la pagaia tra le mani è stata bellissima, mi sono sentito libero. Scivolavo sull’acqua con i miei amici vicino, sentivo di aver trovato il mio posto nel mondo. Ancora oggi ripensare a quel momento mi emoziona».
Cinquantasei anni, ex canoista, Antonio Rossi ha partecipato a cinque edizioni dei Giochi — da Barcellona 1992 a Pechino 2008, dove è stato anche portabandiera — regalando all’Italia la gioia di tre medaglie d’oro, un argento e un bronzo cui vanno aggiunti altri sette podi ai Mondiali. La specialità che gli ha regalato più soddisfazioni è il K2 1000 metri, a condividere con lui il kayak ci sono stati Bruno Dreossi in Spagna, Daniele Scarpa ad Atlanta 1996 e Beniamino Bonomi a Sydney 2000 e Atene 2004. Oggi, dopo un’esperienza in politica, è vicepresidente della Federazione Italiana Canoa e Kayak, in attesa di prendere il posto lasciato libero da Luciano Buonfiglio, diventato a giugno presidente del Coni.
Ma riavvolgiamo il nastro: chi l’ha portata alla Canottieri?
«Sono l’ultimo di cinque fratelli, mia mamma mi affidava ai più grandi. Ho iniziato con il nuoto perché c’erano le mie due sorelle, poi ho seguito uno dei miei fratelli che faceva canoa. Vedevo che si divertiva, ero curioso. All’inizio si facevano le gare sui fiumi. Dopo qualche tempo, complice un cambio di allenatore, siamo passati alla velocità, che è poi la disciplina che mi ha dato più soddisfazioni con le medaglie olimpiche».
Più emozione ad Atlanta, dove ha conquistato due ori, o a Pechino nel ruolo di portabandiera?
«È una bella lotta. Arrivavo dal bronzo del ’92 Barcellona, vincere due ori, salire per due volte sul gradino più alto del podio con le note dell’Inno nazionale quattro anni dopo è stata un’emozione indescrivibile. Ma allo stesso modo, essere scelto, a 40 anni, come alfiere l’ho vissuto come un grande onore: entrare in campo, nello stadio olimpico, con tutta la squadra italiana che ti segue, è stata una scarica di adrenalina ed entusiasmo incredibile».
Cosa significa gareggiare per la Nazione?
«Indossare la maglia azzurra non è solo un onore, ma anche una responsabilità. E lo stesso vale per quella giallo-verde delle Fiamme Gialle. Non è solo un oggetto che indossi, significa rappresentare il proprio Paese e dover dare il buon esempio».
Riguarda mai i video delle sue vittorie accompagnate dalla voce inconfondibile di Galeazzi?
«Molto spesso, soprattutto quando vado nelle scuole per incontrare i ragazzi. La voce di Giampiero ha narrato le nostre gare e questa per noi è stata una fortuna perché lui aveva il dono di saper trasmettere tanta passione anche a chi di canoa non sa nulla. Sono sincero, quando rivedo quelle immagini e ascolto il commento, ancora oggi ho qualche brivido».
Cosa le ha dato lo sport?
«Tantissimo. Sicuramente io allo sport ho regalato qualche ora della mia vita… ma quello che ho ricevuto in cambio è di più. Mi ha dato emozioni e valori. Da padre ho sempre voluto che i miei figli facessero sport perché nell’allenamento, nel confronto, nella gara, nella squadra assimili più che in qualsiasi altro tipo di educazione».
Grazie allo sport ha trovato anche un amico fraterno, Jury Chechi.
«Ci siamo incontrati per la prima volta ad Atlanta che per entrambi è stata un’edizione speciale dei Giochi (Chechi vinse l’oro agli anelli, ndr). Poi ci siamo ritrovati a una finale di Miss Italia, lui era presidente di giuria e io uno dei giurati: lì è nato tutto, ci sentiamo praticamente tutti i giorni».
Tanto che a uno dei suoi figli, Riccardo, ha dato come secondo nome Yuri. Quante ne avete combinate insieme lei e il signore degli anelli?
«Più di una… (ride). Mia moglie mi scusa sempre quando sono con Jury, le nostre sono lunghe serate goliardiche».
La cosa più folle che avete fatto insieme?
«Pechino Express. Quando me l’hanno proposto pensavo che Jury avrebbe detto di no e lui ha pensato la stessa cosa… Invece ci siamo ritrovati con lo zaino rosso in spalla. E proprio in questi giorni rivederci su TV8 dove stanno riproponendo il viaggio, mi fa capire quanto sia stata incredibile quell’avventura. Ci ha unito ancora di più. Già partivamo bene tra corse in bici e partite di tennis. Non sa quante volte abbiamo prenotato un campo a mezzogiorno, preso racchette e palline, e via con la sfida. Nessuno voleva mai mollare».
Siete pronti per Sinner.
«Insomma… Abbiamo già in ballo una sfida io e Flavia Pennetta contro Jury e Francesca Schiavone. Cominciamo così».
Nel 2021, l’infarto: cosa ricorda?
«Anche quel giorno ero con Jury. Non stavo bene, sentivo da una settimana che il mio corpo non rispondeva come al solito. Essere atleti di alto livello ti accende dei campanelli, capisci subito se qualcosa non va. Però avevo in programma una granfondo di bici e mi sono presentato. Ricordo che la sera prima — cosa che non ho mai fatto — ho preso dal “pacco gara” il numero dell’assistenza. Sarà stato il mio angelo custode… Durante la gara ho sentito prima una fitta allo sterno, poi del formicolio alle mani e le gambe hanno iniziato a non girare. Mi sono fermato».
I soccorsi sono arrivati subito.
«Loro sì, ma io ho lasciato andare due medici di gara prima di dare forfait. Mi scocciava ritirarmi, pensavo a una congestione. Quando ho provato a risalire in bici ho capito che non avevo forze e a quel punto ho preso il numero e ho chiamato l’ambulanza. Dal tracciato si è capito subito che era infarto».
È cambiata la sua vita?
«Sì. Non ti senti più un supereroe, capisci che il fisico può essere debole, che non va trascurato. Prendo medicine tutti i giorni».
Sua moglie è un’ex canoista e ha partecipato ai Giochi di Barcellona, avete trasferito la vostra passione ad Angelica e Riccardo Yuri?
«Se la cavano bene tutti e due. Mio figlio ha gareggiato fino alla quarta liceo. Entrambi hanno fatto un anno di scuola all’estero e gli interessi sono cambiati. Sono stato contento così: quando Riccardo gareggiava, qualcuno faceva dei paragoni e questa situazione non mi piaceva».
Più tensione quando in canoa c’era lei o quando dagli spalti vedeva Riccardo?
«Assolutamente quando mio figlio era in acqua. Non riuscivo nemmeno a guardare».
Il 13 settembre, dopo il passaggio di Buonfiglio al Coni, si voterà per il nuovo presidente della Federazione Canoa e Kayak: il candidato a succedergli è lei.
«Seguirò il programma di Luciano votato un anno fa. Mi piacerebbe apportare qualche piccola modifica alla strategia di marketing, fare sì che la giustizia sportiva sia indipendente e non nominata dal presidente federale o dal consiglio e piccoli dettagli sul tesseramento. E poi vorrei creare un campo di allenamento in un’area vicina a Saxa Rubra — era già un’idea di Buonfiglio —, così i nostri atleti non saranno più costretti ad andare fino in Australia o in Brasile».
Fra tre anni ci sono i Giochi a Los Angeles: che squadra abbiamo?
«Molto forte e con grandi prospettive per Brisbane 2032. Nella velocità, il C2 di Casadei e Tacchini è vicecampione olimpico; il K2 di Burgo e Freschi ha vinto il bronzo agli Europei. Più il K4 di Rizza, Lanciotti, Volo, Penato che ha fatto molto bene ai Mondiali che si sono appena conclusi a Milano. E dietro c’è un team che sta crescendo, basta pensare che ai Mondiali Juniores e Under 23 l’Italia è arrivata seconda in classifica generale. Anche nello slalom ci difendiamo bene: Giovanni De Gennaro è campione olimpico in carica e il 18enne Xabi Ferrazzi (figlio di Pierpaolo, oro a Barcellona, ndr) sta crescendo molto bene. E non dimentichiamo le donne che stanno andando forte».
Quanto conta la testa?
«All’Olimpiade, tantissimo. La metodologia di allenamento è simile in tutte le Nazioni e il fatto di trovarsi durante l’inverno con atleti di altri Paesi porta a fare la stessa preparazione. Quello che può fare la differenza è come ti approcci a una gara e come gestisci le emozioni».
Tra pochi mesi iniziano i Giochi di Milano-Cortina.
«Sto facendo il conto alla rovescia».
Che sciatore è?
«Ho iniziato con lo sci, in Valtellina. Ero un po’ spericolato, la discesa libera era la mia passione. Forse è per questo che mia mamma mi ha indirizzato verso il nuoto e la canoa. Quando ero in attività facevo molto sci di fondo».
Si allena ancora?
«Poco perché sono spesso via tra Milano e Roma. Diciamo che mi sono un po’ impigrito. Potrei trovare un po’ di tempo, ma non ho un obiettivo. Anzi, uno sì: poter mangiare. Prima mi alimentavo per allenarmi, adesso mi alleno per alimentarmi senza sensi di colpa».
Il suo piatto preferito?
«Tutti i primi. Sono un fan del carboidrato».
Musica, libri o serie tv: cosa fa per rilassarsi?
«Musica sicuramente. Ultimamente leggo poco, la vista non è più la stessa… (sorride). Tra le serie tv, scelgo quelle poliziesche. Anche se la mia preferita resta Friends, imbattibile».
I suoi cantanti preferiti?
«Ascolto soprattutto musica italiana. Dipende dal momento: Jovanotti, Elisa, Giorgia. Sono un po’ boomer…».
Nel 2026 saranno 30 anni dalle medaglie d’oro vinte da lei e Chechi ad Atlanta: come festeggerà?
«Sicuramente insieme a Jury. Avremo una scusa in più per “dover” organizzare una serata insieme».
3 settembre 2025 ( modifica il 3 settembre 2025 | 08:16)
© RIPRODUZIONE RISERVATA