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Negli ultimi anni i chatbot pensati per il benessere mentale hanno guadagnato popolarità, presentati come strumenti di supporto immediato, disponibili 24 ore su 24. Tuttavia, un recente studio ha evidenziato come la differenza rispetto ad un terapeuta umano sia ancora enorme. Le IA riescono a riconoscere segnali di crisi soltanto quando sono espliciti, reagendo spesso con ritardo e senza offrire soluzioni realmente utili. In certi casi, le risposte possono addirittura amplificare il disagio della persona, mettendo a rischio chi si trova in situazioni delicate.

Dipendenza emotiva dai chatbot e interazioni ingannevoli

Uno dei problemi principali riguarda la natura coinvolgente delle conversazioni con l’IA. Molti utenti, specialmente quelli più fragili o isolati, finiscono per instaurare un rapporto affettivo con il chatbot. Lo trasformano in una sorta di confidente virtuale. Questa dinamica può generare dipendenza emotiva e peggiorare lo stato di salute mentale. Ciò avviene in quanto la persona si allontana dal confronto umano. Rimane intrappolata in un dialogo con una macchina che non ha empatia né preparazione clinica.

Bias, privacy e sicurezza dei dati

Dietro le risposte dei chatbot si nasconde un ulteriore pericolo. I sistemi funzionano come vere e proprie “scatole nere”, in cui non è chiaro quali dati siano stati usati per l’addestramento. Non è chiaro come vengano elaborati i contenuti delle conversazioni. Questo porta con sé il rischio di bias. Ossia, risposte distorte o inadeguate per determinati gruppi di persone. Inoltre, sorgono inevitabili dubbi sulla gestione della privacy e sulla sicurezza delle informazioni sensibili condivise dagli utenti.

Uno studio evidenza limiti e rischi dell’AI: i chatbot non sono psicologi

Lo studio riporta casi in cui le interazioni con chatbot hanno portato a esiti problematici . Persone in difficoltà hanno ricevuto consigli pericolosi. Inoltre, giovani hanno trovato conferme a pensieri autolesionisti. Fino a episodi in cui l’AI ha incoraggiato comportamenti dannosi. Queste situazioni dimostrano quanto sia urgente stabilire regole chiare. Servono supervisioni costanti e limiti precisi all’utilizzo di questi strumenti.

Insomma, i chatbot possono offrire un aiuto momentaneo e immediato ma non devono mai sostituire la figura di un professionista. L’IA può essere utile come strumento complementare, per ridurre l’isolamento e fornire risorse informative, ma serve sempre la presenza di specialisti in grado di interpretare correttamente i segnali di disagio e proporre un percorso adeguato. La tecnologia è solo una risorsa preziosa, non la soluzione.