Del resto il clima afoso della stanza, unito ai suoni che già presto ci arrivano dagli immediati dintorni (campane domenicali, primi treni del mattino, vociare sommesso di passanti mattinieri lungo Corso Umberto I) ci obbligano a non indugiare oltre a letto, nonostante la nostra serata si sia prolungata parecchio: ieri Alessio ha aperto la sezione letteraria del festival, subito dopo l’inaugurazione di una mostra fotografica di Martina Palumbo dedicata alla sua esperienza alla periferia di Dakar dove insegna italiano a classi di senegalesi. Prima in dialogo con Cecilia Ricciarelli e poi con una lettura accompagnata dalla tastiera di Paolo Casali, Alessio ha idealmente teletrasportato una cinquantina di persone dal giardino della dimora pavesiana, dove erano sedute all’ombra di alberi da frutta tipici della zona (bergamotto, fico, ulivo), nelle strade di Luceoli, un altro “paese tuo”, stavolta appenninico e forse inventato: il dialogo fra due province è sembrato un ottimo modo di sottolineare il tema che sta a cuore a questo festival, appunto esplorare i territori meno battuti ma sempre nostri. “Un paese vuol dire non essere soli”, diceva Pavese, “sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Di paese in paese, è qui che un anno fa ho conosciuto Pierluigi Vaccaneo, il direttore della Fondazione Pavese di Santo Stefano Belbo, e come succede spesso nei festival, dove ogni incontro è occasione di nuovi progetti, gemellaggi, amicizie, è capitato che io sia andato già due volte nell’ultimo anno a Belbo, dove non ero mai stato in vita mia.