Tallonato da Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, nel concorso dell’82ª mostra del cinema di Venezia arriva almeno un capolavoro, Duse di Pietro Marcello, mentre sfilano diversi grandi o ottimi film, da L’étranger di François Ozon, dall’omonimo capolavoro letterario di Albert Camus, al monumentale Frankenstein di Guillermo del Toro, che rivisita, condensa e cambia i punti di vista della narrazione del mostro come la conosciamo.

L’anno scorso a quest’epoca erano almeno già due i capolavori: il secondo capitolo del Joker di Todd Philips e soprattutto La stanza accanto di Pedro Almodóvar, poi vincitore del Leone d’Oro; senza contare Vermiglio di Maura Delpero, la sorpresa del concorso e forse dell’intera selezione.

Ma anche Duse è in qualche modo una sorpresa. Pietro Marcello porta finalmente in scena sullo schermo un’attrice che fu maestra della messa in scena teatrale, pur non essendo né una drammaturga né una regista: Eleonora Duse, personalità fuori misura, per effervescenza, visione, genialità. In ambito internazionale soltanto Sarah Bernhardt poté tenere il confronto con lei.

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Marcello ha raccontato tanti personaggi presi dai margini della società nei suoi documentari di poesia, sempre bastian contrari se non anarcoidi, o in fiction al confine di tutto (documentario compreso) come il Martin Eden di Jack London trasposto nel sud italiano e in una dimensione atemporale.

Questa volta sceglie di raccontare una figura femminile mossa dal medesimo fremito indomabile di indipendenza e rivoluzionamento continuo. E ovviamente di amore totale per l’arte e il teatro in particolare. Non priva di contraddizioni, incapace di avere un rapporto sereno con la figlia, eppure alla madre tanto devota, ma anche generosa fino all’estremo (in particolare nel suo rapporto sentimentale con Gabriele D’Annunzio, il quale si sentirà per sempre in colpa di non averla adeguatamente ricompensata), l’azione dell’attrice è colta negli anni a ridosso della prima guerra mondiale, della prima grande carneficina del dopoguerra.

Il cineasta casertano e i cosceneggiatori Letizia Russo e Guido Silei hanno la geniale idea di iniziare dalla fine e perfino di inserire al principio della narrazione due finali: dopo pochi minuti pensiamo infatti che Duse stia per morire, invece rinasce, e così sarà in un susseguirsi continuo di morti presunte e resurrezioni fino alla conclusione del film, quando giunge anche la fine vera, quella della vita.

A portare sulle spalle questo personaggio smisurato e luminoso, e con esso l’intero film, è Valeria Bruni Tedeschi, che, specchio di Duse, domina sugli altri interpreti, anche se tutti talentuosi.

Non c’è dubbio che l’attrice offra qui non soltanto l’interpretazione più significativa della sua carriera, ma anche una delle interpretazioni più folgoranti del cinema degli ultimi anni, non solo italiano: si ha quasi voglia di abbracciarla, come sicuramente tanti desideravano fare con Duse.

Nel raccontare questa grande figura, Marcello racconta e riflette anche sull’arte e, come sempre, sulla storia italiana, sull’Italia disunita e martoriata dalle classi dominanti: maestro nel fondere l’immagine d’archivio con il girato facendo così fiorire poesia che pareva dimenticata per sempre, questo suo nuovo lungometraggio è un ulteriore tassello volto a far risorgere il cinema in un corpo nuovo partendo dalle vestigia dell’immagine.

Chi si muove tra le vestigia, nella fattispecie di Napoli e dell’area vesuviana, Pompei compresa, è un altro grande, Gianfranco Rosi, con il documentario Sotto le nuvole. Il suo bianco e nero fin da subito crea un crescendo uniforme, estatico e arcaico insieme, su qualsiasi cosa sia rappresentata, estrapolata dal tessuto del reale con un talento da rabdomante, antico e intuitivo: persino le continue chiamate dei campani ai pompieri, a volte drammatiche, come nel caso di una violenza domestica, o più spesso divertenti – a tratti siamo dalle parti del teatro partenopeo se non dei fratelli De Filippo – acquisiscono una dimensione fascinosa, misteriosa.

E poi le vestigia di Pompei, il terrore per i terremoti nei Campi Flegrei, il lavoro difficilissimo degli archeologi, i volontari in Ucraina… Al pari che in Duse, quello che alla fine si delinea è un grande affresco dove l’arcaico e il moderno sono annullati in un’unica dimensione spazio-temporale.

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Mare, cielo, vulcano, le nuvole da questi prodotte. E la bellezza di un bianco e nero rareffato da albori dell’umanità, tra i più riusciti dell’intera cinematografia degli ultimi anni. E se non raggiunge forse l’interrogazione su poesia, interiorità del flusso della coscienza umana, senso dell’immagine e della realtà, una trinità colta nel mezzo del conflitto bellico, come nel magistrale Notturno – tra le opere cinematografiche più importanti a livello internazionale – nondimeno queste immagini e queste persone-personaggi resteranno a lungo nella mente. Sia Duse che Sotto le nuvole saranno nelle sale il 18 settembre.

Non arriva al livello del film di Rosi e tuttavia il bianco e nero del film di François Ozon, che adatta il romanzo epocale di Albert Camus firmando anche la sceneggiatura, è più che rispettabile come l’intero film. Con L’étranger Ozon riesce laddove un genio come Luchino Visconti aveva sostanzialmente fallito. In gran parte fedele al romanzo d’origine, negli interstizi della narrazione – che qui è più spesso una narrazione di immagini dilatate e di silenzi, dove affiorano parole ben scelte dal romanzo – molte latenze affiorano.

L’occidentale è qui straniero, o meglio estraneo a tutto, fino a esserlo alla vita stessa, fino al punto di raggiungere la passività più totale durante il processo che lo condanna a morte, ma che cela nel suo volto imperscrutabile (straordinario il volto di Benjamin Voisin, seducente e annoiato insieme, davvero da cinema di un’altra epoca), al pari degli interstizi della narrazione, reconditi desideri omoerotici verso l’arabo apparentemente disprezzato.

Più in generale Ozon evoca sul piano estetico quello che, in realtà, è un immaginario coloniale dell’uomo occidentale, trasfigurato in un’estetica che si fa appunto estatica, onirica, metafisica dello spaesamento umano. È l’Algeri del 1938 (filmata a Tangeri), ma potremmo essere anche a Casablanca, città e film confondendosi. Non c’è dubbio che ad Ozon riescono sempre più i film seri, gravi, e meno spesso quelli più leggeri e pop.

Infine dall’orrore della realtà, alla mostruosità insita nell’animo umano e per questo respinta, ma rappresentata in chiave metafisica. Non siamo sempre fan di Guillermo del Toro, sempre più eccessivo e monumentale e di cui rimpiangiamo i primi film come Cronos (1997), fatti con piccolissimi capitali.
E tuttavia questo suo Frankenstein ci ha molto colpiti. Si ricollega al romanzo originario di Mary Shelley, ma poi cita e rovescia elementi dagli altri adattamenti e proseguimenti dell’interminabile serie di film sul mostro (per esempio nel 1935 La moglie di Frankenstein, moglie che qui non avrà mai, o nel 1957 La maschera di Frankenstein), fino a fonderlo con l’ultima versione di grande impegno produttivo, quella di Kenneth Branagh (1994), ma facendo all’interno tante piccole variazioni dai molti significati.

E soprattutto, nella seconda parte, inserisce il punto di vista del mostro che fa diventare un punto di vista “altro”. O forse sull’altro, in senso lato. Jacob Elordi, quasi irriconoscibile tranne che per i lineamenti delicati, perfino nobili (che stravolgono la consueta iconografia del personaggio tramandata da Boris Karloff), conferisce costantemente al mostro che qui non muore mai, invulnerabile a tutto, una malinconia struggente mentre diventa ombra nel biancore dei ghiacci e, rassegnato, si perde in essi.

Creatura mostruosa ai nostri occhi ma fine e sensibile, più umano degli umani, accetta la sua condizione esistenziale e rinuncia a ogni vendetta sul perverso, scaltro, ambizioso, uomo bianco.

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