Quattro episodi per raccontare l’orrore e il mistero del Mostro di Firenze: Stefano Sollima firma una serie che scava tra indagini infinite e sospetti contraddittori, partendo da Barbara Locci e dall’omicidio di Signa del 1968. Ogni puntata segue un diverso sospettato, in un Rashomon seriale che evita il morboso e riparte dalle origini. Presentata fuori concorso alla Mostra di Venezia e in arrivo su Netflix dal 22 ottobre, l’opera riporta al centro anche la “pista sarda”, oggi tornata d’attualità
Raccontare il Mostro di Firenze significa confrontarsi con un abisso che non smette di inquietare. Stefano Sollima, affiancato da Leonardo Fasoli, sceglie di partire dalle origini, da quei primi fascicoli polverosi che hanno dato vita a una delle indagini più lunghe e tormentate della storia giudiziaria italiana. Il Mostro, presentata fuori concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, arriva su Netflix dal 22 ottobre in quattro episodi che uniscono ricostruzione e riflessione, cronaca e memoria collettiva.
L’orrore senza maschere
Raccontare il Mostro di Firenze significa confrontarsi con un abisso che non smette di inquietare. Stefano Sollima, affiancato da Leonardo Fasoli, sceglie di partire dalle origini, da quei primi fascicoli polverosi che hanno dato vita a una delle indagini più lunghe e tormentate della storia giudiziaria italiana. Il Mostro, presentata fuori concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, arriva su Netflix dal 22 ottobre in quattro episodi che uniscono ricostruzione e riflessione, cronaca e memoria collettiva.
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Otto duplici omicidi, diciassette anni di terrore
Otto duplici omicidi, diciassette anni di paura, una pistola Beretta calibro 22 sempre presente sulla scena. Il racconto della serie parte da questi dati essenziali, impressi nella coscienza collettiva come marchi indelebili. Sollima non si limita a seguire la pista più nota, ma si addentra nella cosiddetta “pista sarda”, tornata d’attualità nelle indagini. Il risultato non è un semplice true crime, ma una riflessione corale su una nazione che non è mai riuscita a chiudere davvero i conti con il suo lato più oscuro.
Un Rashomon seriale
Il Mostro non è una serie di genere, ma un racconto inedito perché il mistero non è stato ancora risolto. Ogni episodio adotta un punto di vista diverso, quasi fosse un Rashomon seriale: quattro versioni, quattro sospettati, quattro possibili mostri. Il riferimento è al capolavoro di Akira Kurosawa, in cui lo stesso delitto veniva raccontato da prospettive differenti, a dimostrazione di come la verità cambi a seconda di chi la narra. Stefano Mele, Francesco Vinci, Giovanni Mele e Salvatore Vinci: nomi scolpiti nei faldoni giudiziari e nelle cronache, ma anche figure che rivelano un altro nodo centrale, spesso dimenticato. Tutti e quattro, nelle loro vite, hanno usato violenza contro le donne. Ed è qui che la serie tocca il presente, diventando racconto sull’oggi. Basta pensare al femminicidio per cogliere la sua urgenza: il mostro non è un’entità lontana, ma il riflesso di una società che continua a perpetrare violenza.
Il fil rouge di Barbara Locci
A unire i quattro episodi è la vicenda di Barbara Locci, assassinata con l’amante Antonio Lo Bianco a Signa, il 21 agosto 1968. Una data che segna l’inizio di un incubo e che la serie rimette al centro come detonatore della stagione del terrore. La sua figura diventa il cuore pulsante del racconto, interpretata con intensità da Francesca Olia, che restituisce a Barbara non solo il ruolo di vittima ma anche quello di donna viva, desiderante, libera, la cui esistenza diventa tragicamente simbolo. La sua presenza scenica lega tutti gli episodi, trasformando Barbara in un fantasma che continua a interrogare lo spettatore.
Etica della rappresentazione
Sollima sceglie una regia che evita ogni sensazionalismo. Molte foto mostrate ai personaggi non vengono mai mostrate al pubblico: lo sguardo non indulge nel macabro, ma resta a distanza, con rispetto. Le morti vengono filmate con rigore, senza spettacolarizzazione, perché l’orrore si racconta senza compiacimenti. Mai contattati i parenti delle vittime, proprio per non infliggere ulteriore dolore; eppure la serie trova forza anche negli incontri con figure come la magistrata Silvia Della Monica e con Natalino Mele, sopravvissuto al massacro della madre. Testimonianze che restituiscono autenticità senza violare la dignità della memoria.
Donne di memoria e giustizia
Accanto alle vittime, la serie dà spazio a chi ha cercato di opporsi al buio. Liliana Bottone offre un’interpretazione intensa nei panni della magistrata Silvia Della Monica, unica donna a indagare sul caso. Figura coraggiosa e isolata, destinata a ricevere il 10 settembre 1985 la celebre lettera firmata dal Mostro, diventa emblema di una giustizia che non si arrende, pur sapendo di camminare costantemente sul filo del mistero. La sua presenza restituisce spessore a un racconto che non è solo cronaca nera, ma anche testimonianza di resistenza civile.
La musica come presagio e requiem
La colonna sonora di Il Mostro è un controcanto che unisce l’intimo al politico. Ogni episodio è scandito da una musica che vibra come presagio di morte. “La Tramontana”, ninna nanna dolce e popolare, si trasforma in requiem minaccioso per il piccolo Natalini. Accanto a lei, “Perfect Day” di Lou Reed, “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli e “Se telefonando” di Mina: canzoni che appartengono al pantheon della musica mondiale e che qui assumono significati perturbanti.
Il momento più sconvolgente arriva quando il testo dei Vangeli si intreccia con il cinema: una vittima, prima di essere uccisa, pronuncia le parole del monologo di Blade Runner — «E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». La citazione spiazza: la finzione cinematografica diventa eco del vero orrore.
E poi, improvvisa, la politica: un’automobile addobbata con i simboli della Democrazia Cristiana diffonde da un altoparlante la notizia dell’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia. L’Italia del Mostro si intreccia con l’Italia della Guerra Fredda, come se il crimine fosse parte del grande teatro della Storia
La forma della memoria
La scelta di concentrare tutto in quattro episodi restituisce densità e compattezza. Ogni puntata funziona come atto di una tragedia: la scoperta, l’indagine, i sospetti, le ombre che non si diradano. L’estetica di Sollima, già sperimentata in Romanzo criminale e Suburra, trova qui una forma più austera e dolente. L’uso della luce, spesso calata nella penombra delle campagne fiorentine, evoca un’Italia ferita che non riesce a guardarsi davvero allo specchio.
Un crimine che è anche racconto nazionale
Il Mostro di Firenze non è stato solo un serial killer, ma un’ossessione collettiva. La serie racconta non soltanto la violenza dei delitti, ma anche il vortice mediatico e politico che li ha accompagnati. Piste contraddittorie, depistaggi, errori giudiziari: tutto diventa specchio di un Paese frammentato. E proprio perché non c’è una verità definitiva, il racconto mantiene la sua attualità. Pacciani arriva solo alla fine, quasi come cliffhanger, forse preludio a una seconda stagione. Ma il senso di questa prima è chiaro: ricominciare dall’inizio, per guardare in faccia il buio.
Sollima tra cinema e televisione
Con Il Mostro, Stefano Sollima conferma la sua vocazione per storie dure, in cui il crimine diventa lente d’ingrandimento del potere e delle sue crepe. Dopo aver raccontato mafie, corruzione e guerra, affronta un male più sfuggente: quello che non ha volto. La miniserie diventa terreno ideale per restituire complessità senza smarrire tensione narrativa, in un equilibrio tra rigore documentario e forza del cinema di finzione.
Ricordare, non risolvere
Alla fine, ciò che resta è un senso di inquietudine profonda. Non ci sono soluzioni rassicuranti, ma solo le vittime e le loro storie spezzate. Sollima invita a guardare senza veli, a ricordare senza indulgere. Il Mostro trasforma il true crime in un atto di memoria civile, in un racconto che non consola ma che rende giustizia alla verità più scomoda.
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