di
Daniele Sparisci

Mario Isola, milanese, 56 anni, è il direttore della divisione sport Pirelli e volontario in ambulanza: «A 13 anni ho tormentato mio padre per avere un kart, poi ho preso il treno giusto»

Premia Verstappen, Leclerc, Norris e Piastri con il trofeo della pole position. È a capo di oltre duecento persone tra tecnici e ingegneri impegnati nello sviluppo delle gomme da corsa e passa più di 200 giorni all’anno in giro per il mondo. Ma da ragazzo, per Mario Isola, l’avventura più grande era andare a Monza a caccia di autografi. Direttore della divisione motorsport della Pirelli, 56 anni, nato e cresciuto a Milano, ha un percorso universitario non completato al Politecnico: «All’epoca era obbligatorio il servizio militare; ho fatto un anno nei carabinieri. Ho avuto un colloquio con la Pirelli: mi sono congedato nell’agosto del 1996 e il mese dopo iniziai a lavorare come collaudatore di pneumatici stradali. Era difficile portare avanti gli studi e il lavoro insieme: viaggiavamo tantissimo in macchina, eravamo appena riusciti a lanciare le gomme invernali, una novità all’epoca. Guidando, arrivavamo fino in Svezia, al circolo polare artico, nei centri di ricerca». Tanta gavetta, chilometri infiniti, poi Isola passa alla progettazione, avvicinandosi al suo sogno: «Volevo occuparmi di automobilismo, avevo tormentato mio padre per comprarmi un kart a 13 anni… e appena si è liberata una posizione in azienda, mi sono subito candidato per il motorsport. Ho preso il treno giusto al momento giusto».

A casa nessuno era appassionato di corse; lui si innamorò di Villeneuve davanti alla televisione: «Gilles ne combinava di tutti i colori. Ero un rompiscatole, obbligavo mio padre a portarmi a Monza. O sul lago, a vedere le sfide tra motoscafi». Quando oggi torna all’autodromo in divisa, lui che con i piloti ci va a cena, si rivede un po’ in quei ragazzi che aspettavano fuori dai cancelli: «Ricordo un test nel 2010, quando la Pirelli stava per tornare in F1: tutti ci guardavano come ragazzini al primo giorno di scuola. A casa conservo la collezione di autografi, di gente come Jean Alesi, che ora è un amico. È la cosa che mi ha sconvolto in positivo: per me i piloti erano inavvicinabili, erano dei poster in camera. Ora sono persone con le quali ho rapporti di lavoro, e con qualcuno nascono amicizie». Poi ci sono i personaggi come Verstappen: «È come lo vedi, genuino e senza filtri. Dice tutto in faccia, e lo apprezzo perché aiuta nel lavoro. Russell invece è molto più strutturato, diplomatico. Hamilton è particolare, dà poca confidenza ed è meno espansivo, ma le sue analisi sono sempre accurate. Con Leclerc ci conosciamo da sempre, quindi il rapporto è più diretto». 



















































Ma ci sono corse ancora più importanti di quelle in pista. Isola fa il volontario sulle ambulanze; a convincerlo furono i suoi amici: «Non ero assolutamente pronto, dicevo che non ne sarei stato in grado. Mi iscrissi al corso e alla fine decisi di provare… Era il 1988, a Milano girava l’eroina, c’erano bande armate nella zona nord dove prestavamo servizio. In 36 anni di volontariato ho visto di tutto, la realtà di una grande città. Ti apre gli occhi e l’unica cosa che puoi fare è agire bene in poco tempo». Gli anni più duri? Quelli del Covid: «A fine marzo 2020, ci avevano chiesto turni extra; a giugno avevo accumulato oltre 200 ore. Dovevamo indossare la tuta, i doppi guanti, la visiera, c’era anche il timore del contagio tra il personale in ambulanza». Gli attraversamenti notturni in una metropoli deserta, quella che poi ha visto rinascere: «Sembra fatto apposta, ma il quartiere a cui sono più legato è l’Isola: perché abito lì vicino, e perché quando correvo in kart il mio preparatore era in via Pastrengo».

Diversi piloti hanno scelto come base Milano, tra questi Gasly e Tsunoda, anche se il mestiere di seguire la F1 comporta spostamenti continui: «Risultato: conosci più posti all’estero che nella tua città. A volte vorrei rallentare un po’; appena scendi dall’aereo non è che vai in ferie, ma in ufficio. D’altra parte, quando mi fermo, mi rendo conto che forse non sono più abituato a farlo. In futuro diminuirò sicuramente le trasferte; significa far crescere persone all’interno del team. Ma in F1 non essere presente sul campo di gara è complicato: in un ambiente così veloce, se perdi un dettaglio, fatichi a recuperarlo. Succede sempre qualcosa d’imprevisto; se sei sul posto, riesci a gestirlo. Da remoto è molto dura. In questi anni ho saltato un solo Gp, il primo in Bahrain nel 2020, perché positivo al Covid. Ci fu il terribile incidente di Grosjean: panico e sofferenza a seguirlo da casa, senza informazioni di prima mano». Lavorare in Formula 1 è prima di tutto capacità di adattamento: «Se non sei flessibile, è meglio trovare un altro mestiere. Avevo gente che mi chiedeva: “Perché ci cambiate i piani quattro volte rispetto a quelli della mattina?”. Non eravamo noi a cambiarli, ma è uno sport in cui ogni decimo di secondo può essere decisivo».


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5 settembre 2025 ( modifica il 5 settembre 2025 | 07:21)