di
Gianni Santucci
Viaggio nel luogo più intimo del giovane che domenica 7 settembre sarà canonizzato da papa Leone XIV. I ricordi della madre: «Quando proponevamo di comprargli delle scarpe nuove diceva che non gli servivano e di prendere piuttosto qualcosa per i poveri»
La stanza del santo ha le pareti d’un giallo caldo, tenue. La scrivania occupa l’angolo destro, ha il piano ampio, il profilo tondeggiante. Qui Carlo stava seduto a studiare, o a programmare al computer. Sulla parete di sinistra sono sospese due mensole, una sopra l’altra, dello stesso colore dei muri. Su quella più in alto stanno allineate nove macchinine di diverse misure, un modellino d’un vecchio motorino Piaggio e uno dello Space Shuttle. Sulla mensola inferiore, undici statuette d’angeli e angioletti, poi le riproduzioni di ceramica di due bambinelli, due uccellini, una pecora, una micro civetta bianca, la minuscola replica d’una coppa del mondo di calcio. Un luminoso ritratto di Cristo è appeso in fondo, vicino alla finestra, con una piccola scritta rossa in basso: «Gesù, io confido in te!».
«Bene o male è rimasto tutto come era quando c’era Carlo», raccontava in un pomeriggio dello scorso aprile Antonia Salzano Acutis, madre di Carlo Acutis, che in questa casa all’ultimo piano di un palazzo in zona Conciliazione visse fino alla morte, il 12 ottobre 2006, per una leucemia che comparve improvvisa e fu letale in pochi giorni, all’età di 15 anni.
Domenica, il 7 settembre, Carlo sarà proclamato santo da papa Leone XIV.
Prima di essere la stanza del santo, è stata «la stanza del figlio». Come il titolo del film di Nanni Moretti che nel 2001 vinse la palma d’oro al festival di Cannes, storia d’una famiglia che attraversa il lutto per la morte d’un figlio adolescente, e che ruota intorno all’immagine di quella stanza che, come spiegò il regista in un’intervista, «dopo la morte di un figlio non si ha più il coraggio di aprire, dove è difficile rientrare».
Nella storia di Carlo Acutis, che ogni giorno andava a messa, che frequentò tutte le scuole in zona Cadorna-Conciliazione, liceale dai gesuiti al Leone XIII, c’è anche quel passaggio che tocca l’emozione di chiunque, credente o no, ascolti la sua storia: come riesce una famiglia a superare la morte d’un figlio?
Ha risposto il padre, Andrea Acutis, in un incontro con gli studenti del Leone a metà dello scorso maggio: «Dio non dà mai le croci senza le grazie per sopportarle. Abbiamo avuto la grazia di custodire questo ragazzo in questi pochi anni di vita».
È stata la mamma, ancora nell’incontro col Corriere di metà aprile, a raccontare come fosse la vita di Carlo in casa, nella sua camera: «È stato sempre precoce. A sei anni già era appassionato di informatica, anche se passava anche il tempo coi giochi che piacevano un po’ a tutti i bambini, ricordo una sorta di fabbrica di mostri, un robot da montare, un coccodrillo. Dipingeva tanto, aveva un senso artistico. A nove anni iniziò a chiederci testi di informatica di livello più alto, come quelli che usavano per gli esami di ingegneria al Politecnico.
Da autodidatta aveva imparato a programmare in C++ e in Java. Aveva una passione pure per i programmi di grafica, che poi usava sia per le ricerche e le attività di scuola, sia per la sua mostra sui miracoli eucaristici. Aveva raccolto uno sterminato materiale, foto e testimonianze. Negli anni la mostra è stata poi allestita in decine di migliaia di parrocchie in tutto il mondo. A scuola ricordo che gli facevano suonare il flauto, ma a lui non piaceva, così ci chiese un sassofono, e anche quello imparò a suonarlo da solo, per fatti suoi, esercitandosi qui dentro questa camera».
Andava a messa ogni giorno. Se la madre gli proponeva di comprare un paio di scarpe, rispondeva «non mi servono, quelle che ho vanno ancora bene, prendiamo qualcosa per i poveri». Accompagnato da Rajesh Mohur, 64 anni, collaboratore domestico della famiglia, faceva spesso il giro del quartiere nei tardi pomeriggi d’inverno, per portare cibo e assistenza ai clochard. Iniziò a essere venerato subito dopo la morte. Il santo adolescente, s’iniziò a dire. Il santo di internet. Nei diciannove anni trascorsi dal 2006 a oggi sembra passata un’era geologica per lo sviluppo delle tecnologie digitali, e dunque ora, secondo la madre, Carlo avrebbe un approccio diverso: «Sarebbe il primo a spegnere il telefonino. A indicare la necessità dei limiti, dell’equilibrio.
Lui stesso, quando a 8 anni gli regalarono una Playstation, decise di non giocare più di un’ora a settimana, perché aveva letto i primi studi sul rischio dipendenza dagli strumenti informatici. Non si pensi che fosse un ragazzo chiuso o solitario. Era solare, socievole, sempre disponibile ad aiutare tutti, sempre col sorriso. Invitava gli amici qui a casa, ma certo non si vergognava della sua fede. L’ultima estate prima di morire lavorò per tanto tempo al computer per progettare il sito per le associazioni di volontariato dei gesuiti».
Una parte di questo lavoro lo fece pure nella sua camera. Non era ancora la stanza di un santo.
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5 settembre 2025 ( modifica il 5 settembre 2025 | 08:44)
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