di
Gaia Piccardi

Mentre stava firmando autografi a bordo campo, qualcuno ha messo le mani sul borsone del numero uno al mondo: «Mi sono preoccupato». Questa notte la sfida al canadese Auger-Aliassime: «Lui in fiducia»

DALLA NOSTRA INVIATA
NEW YORK – Il problema, da questa parti, è che gli uomini che dicono di essere in missione per conto degli dei del tennis, sono tre. Il vecchio e il bambino, Djokovic e Alcaraz, si cannibalizzano l’un l’altro stasera: il Djoker cerca di intestarsi lo Slam n.25, Carlitos punta al sesto nella città che gli ha regalato il primo, e non gli dispiacerebbe la primizia assoluta di vincere senza perdere set per strada. Poi c’è Sinner, che nella notte sbrigherà la pratica Auger-Aliassime in semifinale. Il prime time Usa sul centrale non gli crea turbamento, nei quarti ha trattato Musetti come un estraneo, altro che derby («Non sono entrato pensando di sfidare un italiano, sono entrato pensando: ho davanti il n.10 del mondo»). L’unica alzata di sopracciglia, tra i tre game lasciati a Bublik e i sette a Musetti, gliel’ha provocata un tentativo di furto mente firmava autografi a bordo campo: «Non mi era mai successo — ha osservato —, mi sono preoccupato perché nella borsa, oltre alle racchette, tengo cellulare e portafoglio. Ho controllato: c’era tutto».

Fascinosa New York, con le sue contraddizioni. Tre semifinalisti età media 23,6 anni e un trentottenne che rifiuta di consegnarsi al tempo, convinto di poter sopraffare i giovinastri, magari aiutato da una congiuntura astrale eccezionale. Serviranno gli straordinari, al vecchio Djoker. Alcaraz sembra in modalità Harry Potter, elettrico e magico; di Jannik ha fatto una buona radiografia Musetti, cui il n.1 ha ricacciato in gola sette palle break con la preziosa collaborazione di un servizio tornato efficiente (per la prima volta sopra il 60%, 91% di punti vinti sulla prima). «Con Jannik è obbligatorio servire benissimo — l’analisi del toscano, protagonista di un ottimo torneo sul cemento —, il guaio maggiore è che è opprimente da fondo: ha solidità e una profondità di palla incredibile. Ti porta al limite, poi ti fa andare fuori giri. Penso che Alcaraz, se in condizioni ottimali, sia il solo che possa dargli fastidio». 



















































Dopo aver ceduto gli ultimi due incroci a Djokovic (la finale olimpica di Parigi e i quarti dell’Australian Open a gennaio), Carlitos deve fare sua la sfida generazionale, mentre Sinner con Aliassime sarà impegnato ad aggiornare la contabilità spicciola: dopo Popyrin e Shapovalov, che erano in vantaggio nei confronti diretti, dopo essersi preso la rivincita con Bublik, Jannik ha l’occasione di colmare la rivalità con il talentuoso canadese, tornato al top dopo anni di dubbi e infortuni, appena sconfitto a Cincinnati però ancora avanti 2-1. «Viene da grandi vittorie, è un giocatore in piena fiducia e sappiamo quanto l’energia degli Slam possa caricare» riflette l’azzurro. La superiorità sulla classe operaia del tennis gli ha permesso una navigazione di crociera nei primi turni; l’ha raddrizzata di forza e mestiere con Shapovalov, che rischiava di essere un Dimitrov-bis, poi ha brutalizzato Bublik che aveva osato eliminarlo sull’erba di Halle, infine ha alzato il livello con Musetti. Alla maniera dei grandi. 

C’è ulteriore margine di crescita, Jannik? «La seconda palla. La stiamo un pochino cambiando. Qui all’Open Usa provo a servirla più forte e con più spin. La lavoro di più. Prima la tiravo sempre al corpo, ora riesco ad ottenere i tre angoli, poi dipende dalle giornate…». Quelle di Jannik si somigliano tutte. Warm up e giochi con il team nel match day, allenamento e riposo nei giorni off. E la sera, tavolo molto appartato nei soliti due-tre ristoranti. Gli atleti di alto livello sono creature abitudinarie, guai a cambiargli la routine di una virgola. Sono mentalisti che riescono a isolarsi nel bailamme dell’Arthur Ashe, lo stadio del tennis più grande del pianeta (23.771 posti a sedere), un salotto a cielo aperto in cui la gente va e viene di continuo chiacchierando, mangiando, bevendo. 

Sinner-Musetti si è giocata in condizioni assurde (Lorenzo ha detto che non sentiva il suono della palla), per tutti tranne per Jannik. «L’Open Usa è così: un torneo diverso e speciale. Non è sempre facile concentrarsi. Io qui ho cominciato a vincere quando l’ho accettato». Accettazione, ecco. Un’altra formula-chiave del metodo Sinner è smettere di resistere a ciò che non gli piace. E cominciare a ricevere.

5 settembre 2025 ( modifica il 5 settembre 2025 | 17:17)