Ripresa dei negoziati per la liberazione degli ostaggi ma anche il cessate-il-fuoco permanente, ingresso sicuro degli aiuti umanitari, pieno rispetto delle legittime aspirazioni di entrambi i popoli, due Stati, statuto internazionale di Gerusalemme, che non è la capitale di Israele. Questo è il contenuto del comunicato uscito dalla sala stampa vaticana immediatamente dopo il colloquio di Herzog con Leone XIV. Bisogna saperlo leggere, il linguaggio della diplomazia. Mantiene toni pacati, il papa, ma con Herzog non si smuove di un millimetro, e smentisce la nota diffusa in ebraico dal Presidente israeliano, secondo cui il senso della visita sarebbe stato concordare col papa uno statuto speciale per i cristiani.

Leone non ha svilito le parole dei patriarchi di Gerusalemme, il latino Pizzaballa e il greco ortodosso Teofilo III. La loro dichiarazione congiunta – «le nostre chiese non se ne andranno da Gaza» – era una risposta all’ingiunzione di andarsene, avanzata dal governo israeliano nei confronti della parrocchia della Sacra Famiglia come di quella greco-ortodossa San Porfirio.

I patriarchi ribadivano la loro decisione «di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che si troveranno nei due complessi». Centinaia e centinaia di persone, e non solo cristiani, tra cui «anziani, donne e bambini…Molti … indeboliti e malnutriti». Gente per cui «cercare di fuggire verso sud equivarrebbe a una condanna a morte».

Restano intatte, chiarissime e forti le loro parole, restano alla temperatura del fuoco, quella che secondo Mario Luzi, il poeta, «si addice alla Parola»: «Non può esserci futuro basato sulla prigionia, lo sfollamento dei palestinesi o la vendetta. Non è questa la giusta via; non vi è alcuna ragione che giustifichi lo sfollamento deliberato e forzato di civili».

Parole eroiche oggi laggiù, che offrono la fragile vita di chi le condivide al fuoco genocida dei carri di Gedeone/Netanyahu. In duplice senso, come duplice è il senso della parola “sacrificio”. Nel senso di un martirio che non è affatto impossibile, per quanto enorme di fronte al mondo attonito sarebbe l’attentato mortale che un manipolo coeso di assassini autoproclamatisi eredi della Legge di Mosè, sostenuti da un manipolo sparso di sepolcri imbiancati della Civiltà Occidentale (vuoti come maschere comiche ma feroci come Leviatani) infliggerebbe ai rappresentanti in Terrasanta della seconda fra le tre religioni del Libro, o piuttosto della Parola.

“Sacrificio” significa fare sacro, e questa parola ha certo un’anima arcaica e tremenda. Ma ne ha anche una di pura luce che da tutti i secoli della storia tenta di liberarsi dall’altra, e tentando fa, di questa storia, la poca parte che possiamo davvero chiamare umana, e i credenti chiamano santa. Come è il grido di sconforto di quell’ebreo nudo, spogliato di ogni potere, mentre viene ucciso e non maledice, ma lega nella sua carne l’idea del bene e la rinuncia alla forza. Incarnazione è questo, anche i non credenti lo sanno.

Fuoco era la parola di quell’uomo come oggi lo è divenuta quella dei suoi eredi di oggi in Palestina.

Fuoco soave opposto al fuoco distruttore dei carri di Netanyahu, che ha dato il nome di Gedeone a un’operazione tesa a provocare una marcia della morte, con la benedizione degli Usa, nell’inerzia dell’Europa. Fuoco opposto a fuoco come la luce fa con le tenebre: non le “aggredisce”, solo si accende, e le disperde. Le tenebre della mente, almeno. Il buio della disperazione che grava su tutti noi, impotenti contro la criminale complicità dei nostri governi, per alte che si levino le nostre voci dalle piazze e dai social.

Il linguaggio della diplomazia invece è tiepido.

Eppure a conclusione della loro dichiarazione i patriarchi avevano citato parole di papa Leone: «Tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli, devono essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti, in particolare il diritto di vivere nelle proprie terre; e nessuno può costringerli a un esilio forzato». Aiuta la mia incredulità, scrisse Agostino. Questo papa agostiniano può ancora aiutare anche noi laici, la nostra incredulità morale e civile, che prelude all’avvento del nulla.