Quello che per altri autori è stile, cioé strategia, per William Burroughs è atteggiamento esistenziale. Gli apparentemente distanti saggi-racconti, quarantatré, che compongono “La calcolatrice meccanica” non sono fiction ma proiezioni del reale, del reale di Burroughs e della sua unica compagna, la parola, la malattia più bella che l’uomo possa contrarre: la capacità di rivelarsi

Cos’è che spesso capita ad uno scrittore di romanzi?

Un fatto fagocitario, un evento di indiretto e retroverso cannibalismo letterario: l’essere divorati dai propri personaggi, la scomparsa mediatica dietro l’aura travolgente di qualcuno che, abitando inizialmente solo gli spazi delle pagine di un libro, è finito per venir fuori dalla storia e banchettare le carni del proprio autore (mi si permetta il transitivo poetico, che qui vuol rendere più cruenta la scena!).

È il peccato originale di ogni personaggio letterario di successo o, se si vuole descriverlo in termini di psico-antropologia, l’atto fondativo di freudiana memoria in cui il figlio ha necessità di annichilire il genitore: mangiare chi l’ha messo al mondo. È un mito strutturante, sanguinario e violento, ma a dire degli antropologi “necessario”, nella migliore tradizione neolitica. Un atto di genti preletterate, dunque, ma che millenni dopo, con la letteratura, e con la proiezione dell’antico tabù nell’animus dei loro inventati personaggi, hanno visto crescere la loro fame fino a vederla trasformarsi in un’orgia antropofaga.

Così Montalbano, che spolpa le ossa di Camilleri; così Pinocchio, che dopo aver caricato un calcio sullo stinco del papà Geppetto, finisce col cibarsi pure di Collodi; e che dire di Cirano (conosciuto da tutti)? Mai abbastanza morto, tra le sue drammatiche vicende d’amore, per non far merenda ancora e ancora con i resti del suo creatore Rostand (a molti tristemente ignoto).

Sono solo alcuni esempi. Ed è sintomatico che il libro della Genesi ci presenti un quadro in cui, dopo la ybris di Adamo ed Eva, Dio fa in modo che – oltre ad aver mangiato dell’albero della conoscenza – i due non mangino pure il frutto dell’albero della Vita! Non ancora, almeno…

È la fame delle creature. Che neanche il tempo, per quanto Crono ce l’abbia messa tutta giocando d’anticipo, riesce a placare!

Lo strano caso di William Burroughs

Il caso del nostro Autore è particolarmente strano perché inverso secondo la documentata logica pocanzi presentata.

William Burroughs, di cui presentiamo qui La Calcolatrice Meccanica (305 pagine, 24 euro) traduzione di Andrew Tanzi per Adelphi, più che essere stato fagocitato dai suoi personaggi, è diventato piatto da portata per Burroughs stesso, che ha finito per divorare il suo alter ego scrittore! Insomma, sopravvissuto alla fame dei suoi personaggi (spesso tenuti a bada con la morfina, come nel caso della sua nota tetralogia letteraria), è “soccombuto” a quella della sua biografia da rotocalco.

Quanto al micidiale e perciò virgolettato participio (ammesso che al suo apparire non siate “soccombuti” anche voi), ci ritorneremo tra breve. Per ora diremo solo che è un anticipo tematico di uno degli argomenti centrali messi a fuoco da questo libro. Non il soccombere in quanto tale, ma il soccombere della parole, quando smettono… per così dire… di assolvere le loro funzioni (come quelle di travalicare, a volte, e per necessità epifanica, il perimetro della grammatica). Quando, pur sapendo che la cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili, smettono di muoversi, proprio loro, che potremmo definire come principî organici fondamentali. Ma anche su questo ritorneremo tra breve.

Nessun ordine

Per adesso procediamo con ordine (Dio mio, quanto è sbagliato questo incipit quando si presenta un libro come questo!).

La Calcolatrice Meccanica, che Adelphi ha pubblicato in questo 2025, nel quarantesimo anniversario da quando, per la prima volta, fu dato alle stampe, è una raccolta particolarmente interessante di quarantatré saggi scritti da William Burroughs nei primi trent’anni della sua carriera.

Come spesso avviene nel caos primitivo di ogni nume letterario, le prime opere (anche quando non sono romanzi, anzi, soprattutto) sono “quel” seme di Aristotele, quella noce potenziale in cui si osservano, ancora in modo indistinto, tutte le forze letterarie germinali che, più avanti, saranno più facilmente feconde e classificabili.

L’entropia di Burroughs, però – e qui andiamo subito al centro della questione – non si è esaurita con lo specializzarsi della sua “professione”, con il logorio della sua Remington portatile o l’accrescersi della sua fama. In perfetta corrispondenza a quel movimento cosmico oggi sempre più sostenuto dalla teoria di molti astrofisici, l’entropia del nostro Burroughs ha subìto un crescendo continuo, un’accelerazione che in questi saggi si mostra ancora nell’apparire della sua letteraria causa incausata. Quel cut-up, per intenderci, che in altri autori è uno stile, e dunque una strategia, nella penna di Burroughs si palesa come atteggiamento esistenziale. È dunque un riflesso dell’autore, prima che una sua scelta. L’homo willianus precede abbondantemente lo scrittore, e procede attraverso di lui, assorbendo in queste manifestazioni sintomatiche tutto il suo stesso essere.

La rivelazione del… saggio

Il saggio, in tal senso, rivela molto più del romanzo. Perché se in un romanzo, dove talvolta il non senso di una frase diviene espressione di una sofferenza di intreccio, voluta per proiettare quella di un qualche personaggio, nell’opera saggistica c’è da chiedersi, invece, che utilità abbiano delle sintassi perfette grottescamente mescolate a delle semantiche apparentemente nulle!

Faccio un esempio… Tempo fa, a mo’ di esperimento, per divertirmi con un amico, pubblicai questo post: Esiste una dimensione interiore senza appigli, profonda quanto basta per balzare da un estremo all’altro di sé stessi. L’apoftegma non aveva alcun significato. Era solo una vetrina pseudo-poetica di parole e ricercate suggestioni: una trappola messa lì per vedere chi avrebbe commentato e come. E non vi dico…  Ma quante risate! Sì, però, tra le risate, veniva fuori un fatto: le parole sono potenti, performanti, capaci di creare un significato anche quando non esiste. La parola, in quanto tale, è significante a prescindere; se ciò – beninteso – è la sua intenzione!

Il cut-up di William Burroughs non è un da intendersi, dunque, come una fictio stilistica, ma come un mettere la parola nella condizione di esercitare il suo più antico e nobile compito: creare! Ne consegue che i suoi racconti (perché anche questi saggi, in qualche modo lo sono), non siano delle fiction ma delle proiezioni del reale, e della sua realtà in particolare.

Nulla di strano, perciò, che l’uomo che precede lo scrittore emerga molto prima di quest’ultimo: lo scrittore diventa vettore meccanico di un chasma traboccante; lo scrittore non può esaurirlo né superarlo: lo avalla, e basta. In altri casi, in cui la voragine inconscia è decisamente meno ampia, il lavoro di “scrittore” diventa quasi psicanalitico: un super-io cui viene data in mano una penna. Qui succede il contrario: aprire un libro di Burroughs significa ritrovare lui stesso sdraiato sul lettino della sua più nuda visibilità. Accanto a lui la sua compagna, l’unica che egli abbia mai amato: la parola.

Il logos

La Calcolatrice Meccanica lascia che un tema, più degli altri, emerga ad ogni piè sospinto: sotto forma di linguaggio antropologico, biologico, mitico, a volte aziendale, ma sempre come occasione per impostare un controattacco agli attacchi contro la parola, ad ogni tentazione di mortificarne il senso che, prima d’essere quello che la parola dà a qualcosa, è il senso stesso del suo essere segno auto-riproducibile, performativo, e persino divinamente distruttore. Come nella triplice manifestazione trimurtica, la parola crea, preserva, distrugge. E poi trasforma. Se cessa di occuparsi di questo, diventa un souvenir, un adesivo da applicare su un qualche finestrino mainstream. La parola, il logos, può creare un orripilante participio passato difettivo, se serve a qualcosa, senza impertinenza o tracotanza, ma solo per propria competenza sostanziale! Può scherzare su sé stessa, può meta-specularsi, può tutto: è potenzialmente onnipotente.

Il Burroughs di questi quarantatré saggi ci offre una visione spezzettata, picassiana, del suo bacino ispirativo, dove i frammenti visibili della sua produzione (tra cui quelli lessicali del cut-up cui prima ci riferivamo) non servono a disgregare la materia letteraria, ma a concentrare la nostra attenzione sul singolo elemento, decisamente più esperienziale che non letterario.

Ecco perché, ben prima dei suoi personaggi, è lui ad emergere. Perché il suo flusso di scrittura scaturisce direttamente dalla sua necessità auto-espressiva, talvolta esplicita, altre volte persino inconsapevole, inconscia (come forse possiamo dedurre da La caduta dell’arte e La grande abbuffata, due dei saggi contenuti nella raccolta; ma a voi capirne il perché).

Perché, dunque, proprio una calcolatrice?

A quelle generazioni di archetipi e cinematografici contabili, coi loro alza-maniche e una visiera anti-sudore sulla fronte, il prospettarsi all’orizzonte della tecnologia di una calcolatrice meccanica dovette apparire quasi un’epifania messianica! Qualcuno che venisse a liberarli da quelle migliaia di decine portate a capo ad ogni addizione e moltiplicazione! Il fatto che un marchingegno meccanico permettesse che un certo valore numerico venisse sommato nella propria posizione decimale e inglobato da un totalizzatore aritmetico, dovette rappresentare ben più che una semplice scorciatoia computistica.

Ora, al di là del fatto che un William Burroughs, ben prima del nostro autore (suo nonno, per l’esattezza), abbia reso popolare l’invenzione di una calcolatrice meccanica, e che ciò basti già a poter giustificare con la necessità di un omaggio il titolo di una raccolta, non ci impedisce però – come non lo impedì a chi scelse questo titolo – di far sì che il poco sopra citato funzionamento meccanico non sia passibile di un trascendimento simbolico.

In effetti, se ci pensiamo bene, ciò che la calcolatrice meccanica fa con i numeri, accumulandoli e calcolandoli senza coscienza, è esattamente ciò che – da un lato – sembra fare Burroughs quando mette insieme, a partire da una sua meccanica autoriale apparentemente inconscia, tutta una serie di saggi apparentemente così diversi tra di loro, almeno dal punto di vista del contenuto narrativo; dall’altro, però, scegliendo questo titolo, è come se l’autore ci tirasse un occhiolino ammiccante proprio sulla rischiosa ma intrigante possibilità che la reductio di ogni singola parola a “segno” auto-sussistente, e dunque computabile per ciò che naturalmente è, potrebbe essere per chi, come lui, sceglie la scorciatoia meccanica del verbo non per mortificarlo ma, come si diceva prima, per costringerci a contemplarlo nella sua più eloquente e performante nudità; proprio come il biologo osserva necessariamente la cellula prima che il tessuto, o un anatomopatologo il tessuto prima che l’apparato! Burroughs, virologo della parola, guarda alla natura propria di questo “essere semantico”, cercando di capire se possieda quelle caratteristiche organiche proprie, tali da farne un essere vivente: può la parola provvedere al proprio sostentamento nutritivo? Può autonomamente creare contesti di adattamento per la propria sopravvivenza? Può permettersi spazi letargici o possibilità escretorie? E, più che ogni altra cosa, è capace di moltiplicarsi?

Sembra che William Burroughs dia una qualche risposta a queste domande; oh, certo! Lo fa adattando mille linguaggi diversi a questo tema, ma – in ultima istanza – pare che la sua idea sia proprio questa a proposito dell’essenza di ogni parola possibile: un invisibile logos messaggero che, come un RNA, colonizza i linguaggi, le culture, i miti, i racconti, i discorsi e le idee, vivendo in essi e attraverso di essi; moltiplicandosi e riproducendosi con loro, perché non sia mai debellata la malattia più bella che l’uomo possa contrarre: la capacità di rivelarsi, proprio attraverso (o per colpa) di quelle parole talvolta così nude, così meccaniche ma, anche, provvidenzialmente virali.

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