Nel 1975, mentre l’Italia assisteva alle scosse telluriche di una società in trasformazione, Mario Monicelli dirigeva uno dei film più corrosivi e immortali della commedia all’italiana: Amici miei. Un titolo che, pronunciato oggi, continua a evocare non solo le zingarate, la supercazzola, le espressioni che sono diventate di uso comune e che abitano la lingua italiana, depositate da tempo nella memoria collettiva, le burle goliardiche e infantili, ma anche la malinconia, un senso di disfatta esistenziale mitigata solo dall’ironia. Cinquant’anni dopo, Amici miei è uno dei grandi capolavori del cinema italiano, un film che ha attraversato epoche e appassionato generazioni di spettatrici e spettatori, ridefinendo per sempre la comicità italiana.

L’opera nasce dalla scrittura di Tullio Pinelli, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi, autori nello stesso anno del primo Fantozzi, e da un’idea di Pietro Germi, che la concepì come una commedia corale, cinica, amarissima, ma che non poté portare a termine. Inizialmente era ambientata Bologna, perché Germi “non credeva all’umorismo toscano”. Quando poi la direzione venne affidata a Mario Monicelli, il regista scelse di proiettare la storia nella sua terra d’origine, ovvero la Toscana, perché la storia era a tutti gli effetti toscana, le dinamiche, le burle, le risate, erano state vissute sul serio da amici fiorentini, tutte vicende modellate su persone e vicende reali.

L’eredità di Germi, la mano di Monicelli

Nel libro La supercazzola: istruzioni per l’Ugo, lo sceneggiatore Piero De Bernardi spiega che “Il Conte Mascetti, il personaggio di Ugo, esisteva per davvero, e veramente aveva fatto un viaggio di nozze di due anni e mezzo con la moglie e l’orso al guinzaglio, mangiandosi il patrimonio suo, quello della moglie e anche quello dell’orso. È vera anche la storia che sembra più finta, quella della banda di gangster che perseguita il vecchio e odioso pensionato. A Firenze, per un anno e mezzo, un barista, un notaio e un magazziniere tennero in piedi la burla ai danni di un vecchio come quello”. Se Germi intuì che la risata era il volto capovolto della disperazione, Monicelli prese questa intuizione e la trasformò in cinema puro, tempi comici perfetti, ritmo geniale, personaggi beffardi, umorismo crudele: il risultato fu un film che ride di tutto, un’opera moderna in cui “sembra che non ci sia niente, e invece c’è tutto”.

Amici miei ci porta nella vita di cinque amici: Conte Mascetti, (Ugo Tognazzi), Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), Guido Necchi (Duilio Del Prete) e il Prof. Sassaroli (Adolfo Celi). Cinque uomini di mezza età, cinque amici diversissimi per estrazione sociale e professione, che trovano rifugio nella complicità reciproca e nell’unico antidoto alla tristezza che conoscono: la zingarata, ovvero la beffa improvvisata, lo scherzo surreale. La voce fuori campo di Perozzi accompagna e orienta lo sviluppo delle sequenze, rivelando le imprese tragicomiche del gruppo, le fughe dalla quotidianità e gli scherzi ai danni di ignari sconosciuti.

Una Firenze grigia, vera

Ma sotto la superficie della farsa, si intravede il volto amaro della realtà: Perozzi è un giornalista disilluso che vive un rapporto coniugale infelice; Mascetti è un nobile decaduto che sopravvive a malapena; Melandri è un architetto che non ha mai conosciuto l’amore vero; Sassaroli è un medico rispettato e brillante, il più freddo e razionale del gruppo; Necchi, gestisce un bar con la moglie, il luogo preferito dagli amici in cui si riuniscono per giocare a biliardo, epicentro dell’ozio più totale.