Teresa è stata una donna silenziosa, con un talento particolare, la capacità di predire il futuro, e di condizionare in negativo la vita degli altri, potere speciale che suo marito chiamava “l’occhio pesante”. Ha trascorso una intera esistenza senza realizzare i suoi desideri segreti, in competizione con la figlia e la nipote delle quali invidia la libertà, con le pronipoti che le sottraggono, a suo sentire, l’affetto della famiglia. Teresa è una manipolatrice, la sua strategia di sopravvivenza è legata al silenzio e alla menzogna. Grazie alla sua abilità è riuscita ad attraversare senza scossoni un secolo di storia, dal fascismo alla pandemia.

Una volta morto il marito, Teresa ha dismesso i panni della prudente madre di famiglia per indossare quelli della matriarca, e ha cominciato a giudicare gli altri senza pietà, a dispensare insulti e a parlare senza pause. I figli, le badanti, le amiche, se mai ne ha avute, sono i suoi bersagli preferiti. Eppure Teresa non avrebbe motivo di essere così arrabbiata. Ha potuto studiare in un periodo in cui alle donne era negata l’istruzione; è stata ammirata e corteggiata perché avvenente, e affascinante proprio per via dei suoi silenzi misteriosi. Ha goduto di una salute di ferro; è stata amata senza condizioni dal marito che ha assecondato i suoi capricci, che l’ha colmata di attenzioni e riempita di regali. La storia è tenuta insieme da un lungo filo di parole. Si tratta di un lessico familiare che Teresa conia e adatta a seconda delle fasi della vita, passando da un linguaggio ricercato nella giovinezza, quando imitava gli autori classici, a un fraseggio infarcito di parole storpiate nel periodo della maturità, all’uso del dialetto e delle parolacce sotto la spinta dei rimpianti, ai suoni onomatopeici che utilizza nella vecchiaia quando dimentica le parole e ricorre a confusi grugniti per soddisfare i suoi bisogni.

Meglio non dire altro. Spero di avervi fatto venir voglia, cari lettori e lettrici, di scoprire i segreti della famiglia Accoto, le cui vicende si intrecciano con quelle del nostro paese. Ho deciso di scrivere questo romanzo quando mia madre ha cominciato a invecchiare, mio padre non c’era più e senza la sua guida i nostri equilibri familiari erano saltati. Ma per quanto mi sforzassi di comprendere le ragioni degli altri, non riuscivo ad accettare quel cambiamento che ci stava allontanando. Come potevo guardare in cagnesco mia madre che mi aveva generato, o i miei fratelli con i quali avevo giocato? Cercavo una spiegazione razionale a certe paroline che sembravano nascere per caso e si conficcavano dritte al cuore. Ho cominciato allora a scrivere una storia ispirata alla mia. Dopo un po’ di pagine mi sono bloccata. Ho inviato il manoscritto a un’amica scrittrice di cui mi fido molto.

Che è successo? Ho chiesto. “Devi trovare una strada affettiva” mi ha risposto lei. “Ritrovare l’affetto in mezzo a tutto quello che gli fa ostacolo e ombra. Sì, è una strada difficile, profonda, che non basta rovesciare da odio in amore, perché non sarebbe più vera. Però è una strada che ha molto a che fare con il tuo rapporto con te, tutta quella stizza è fra te e te.

Penso che ti devi trovare dentro tua madre (proprio quello che non vorresti fare). Il racconto scorre, ma scorre in superficie. È come se avessi descritto il primo girone di un albero tagliato. Poi ci sono tanti gironi più interni. E se vuoi andare avanti, devi percorrerli: secondo giro, terzo giro, ..

Non vuol dire riscrivere la stessa storia ma ripensarla, dentro.”

E così ho fatto. Pian piano Teresa ha preso corpo, e con lei Elena sua figlia, la nipote Marisina, Costanza e Viola piccole pronipoti. Nessuna di loro è mia madre, o me stessa, o mia figlia, ma il racconto ha assunto una forma universale, mettendo in chiaro l’ambivalenza che si nasconde in ogni maternità. E quando ho messo la parola fine mi sono trovata pacificata.

Forse alcuni di voi avranno modo di ritrovarsi in quelle che sono dinamiche molto comuni, e alla fine spero chiuderete il libro con lo stesso senso di pienezza e di gratitudine che ho provato io.

Giuseppina Torregrossa