Quando uscì nel 1965, I pugni in tasca di Marco Bellocchio sembrò arrivare da un altro pianeta. Non era il cinema che l’Italia era abituata a vedere: non c’era la compassione del neorealismo, non c’era la patina felliniana, né la rarefatta eleganza di Antonioni. Al loro posto, un attacco frontale alla famiglia, alla Chiesa, alla rispettabilità borghese. Bellocchio aveva appena ventisei anni e girò il film proprio nella sua casa d’infanzia, trasformandola in un laboratorio di nevrosi, violenza e claustrofobia. Il risultato fu un’opera che scandalizzò i benpensanti e conquistò una generazione pronta a ribellarsi.
La storia è quella di una famiglia senza padre, segnata da fragilità e rancori. Una madre cieca vive con i suoi quattro figli adulti: Augusto, il maggiore che mantiene tutti, Giulia, instabile e seduttiva, Leone, fragile e disabile, e soprattutto Alessandro, interpretato da un magnetico Lou Castel. È lui il cuore nero del film, un ragazzo epilettico e brillante che concepisce un piano tanto folle quanto glaciale: uccidere la madre e i fratelli per liberare Augusto dal peso di una famiglia malata. In questo progetto delirante, il film mette a nudo non solo il collasso dei legami familiari, ma anche la crisi profonda di un’Italia che si stava illudendo di aver trovato stabilità dopo il dopoguerra.
Bellocchio non offre mai un punto di vista rassicurante. Alessandro non è un mostro da condannare né un eroe negativo da idolatrare: è un personaggio disturbante e al tempo stesso ipnotico, simbolo di una generazione senza posto, schiacciata tra obblighi morali e desiderio di libertà. Le sue crisi epilettiche diventano immagini potenti, allegorie di un corpo che non riesce più a contenere la tensione. Ogni gesto è ossessivo, ripetuto fino allo sfinimento, come se l’unico modo di esercitare un controllo fosse quello di recitare all’infinito lo stesso rituale.
Il film non si limita a raccontare la disgregazione di una famiglia, ma ne fa un atto politico. I funerali, le preghiere, i riti cattolici sono messi in scena come meccanismi vuoti, incapaci di dare senso o consolazione. In una delle sequenze più celebri, Alessandro salta il feretro della madre come fosse un ostacolo ginnico: un gesto che racchiude tutta la volontà di desacralizzare i simboli che avevano retto l’Italia del dopoguerra. Non meno eclatante è il rogo con cui i figli distruggono gli oggetti della defunta, un falò che non è solo liberazione personale, ma rito di cancellazione di un passato che non regge più.
A rendere ancora più dirompente il film è la sua forma. La fotografia in bianco e nero di Alberto Marrama è tagliente e nervosa, i movimenti di macchina hanno l’energia della Nouvelle Vague, il montaggio di Silvano Agosti spezza i raccordi classici e fa collidere le scene in modo brutale. E la musica di Ennio Morricone, funebre e ironica al tempo stesso, accompagna questa danza macabra con il tono di una messa profana.
Presentato al Festival di Locarno, I pugni in tasca venne accolto – perdonateci la ripetizione letterale – come un pugno nello stomaco. I giovani critici lo amarono, la Chiesa lo bollò come sacrilego, persino registi come Buñuel e Antonioni lo liquidarono con sufficienza. Eppure fu chiaro fin da subito che nulla sarebbe stato più come prima. Il film aprì la strada a un nuovo modo di intendere il cinema italiano, meno legato al neorealismo e più disposto a sporcarsi le mani con la crudeltà, l’ironia nera e la disintegrazione dei valori tradizionali.
Oggi, a quasi sessant’anni di distanza, I pugni in tasca conserva intatta la sua forza. È un film che ancora mette a disagio, che non offre vie d’uscita e che ci costringe a guardare in faccia la fragilità delle istituzioni che abbiamo sempre considerato sacre. Non è solo un classico da riscoprire, è una ferita ancora aperta, la prova che il cinema può davvero cambiare il nostro modo di guardare la realtà.
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