Certo, ci sono solide, congruenti narrazioni in questa Mostra (che paiono frantumarsi di fronte all’urgenza, alla risonanza di The Voice of Hind Rajab), da Assayas a Bigelow, a Del Toro, finanche Rosi: trasposizioni sullo schermo, di trame esposte al consumo (anche famelico da parte di chi cerca solo storie: ed ecco, s’invola in Darsena alla conquista del sedile migliore, con zuffe, accapigliamenti, cagnara); ostensione di strutture narrative efficienti in quanto a consecutio dei fatti, a verosimiglianza degli incastri. Quello che manca, mi pare, è lo slargo adibito allo sguardo, lo spazio «liscio» in cui vedere fermentare, ronzare la materia cinematografica, magari in piano-sequenza, in salti temporali, baratri di sceneggiatura.
ANCHE DIFETTI, anzi «proprio» difetti narrativi, anomalie, «impurità» sulla superficie del racconto che però rompano l’automatismo del consumo, dell’assorbimento inerte di storie, per poter fermare lo sguardo in contemplazioni, riflessioni, al limite anche perdizioni. È uno spazio bianco, un’immagine cristallina, tridimensionale, anzi quadrimensionale, contemplando anche il tempo, entro cui poter sperimentare quella che Rilke chiama «felicità bianca», l’estasi dell’erranza oculare, orbitale in uno spazio astratto. Solo che il tempo qui non è fissato, non è un dato, ma è la possibilità di concrezione di forze ancestrali: folate, spore, muffe di segni rutilanti nell’atmosfera. Ecco allora, per ora, giusto tre eccezioni: il film di Marcello, probabilmente il maggiore regista italiano contemporaneo, uno che, insieme a Rohrwacher, sta indicando la strada, una strada di sedimentazione (formalizzazione) di aleatorietà (la stessa percorsa, con le dovute distinzioni, da Comodin, Minervini, Rigo de Righi e Zoppis, Luzi e Bellino, De Caro, Angius); poi in Orizzonti Estrany riu del regista spagnolo Jaume Claret Muxart e Hiedra di Ana Cristina Barragan, film di sublime ambiguità, di inquietudini serpeggianti, sibilanti sullo sfondo di «camere a spalla», di panorami spuri, posti in sgomenta penombra, come arrivati dal Reygadas più inquieto. Ma ovviamente i riferimenti sarebbero anche più numerosi, comunque tratti da certo «ruvido» cinema sudamericano, andando indietro almeno fino a Rocha e risalendo a Ripstein.
C’è tutto un lavoro sulla fotografia in questo film di Barragan che individua lo spazio aperto di condizioni di luce algosa, angolosa, decrescente fino al punto in cui le cose e i personaggi appaiano nei loro chiaroscuri, nella loro sostanza opaca, carnosa, nelle loro zone d’ombra. Grumi di crepuscolo uggioso, spurio, proprio come chiave di volta della ripresa, correlativo oggettivo di un mondo spoglio, rudemente povero, esalante miasmi, umidori, in cui anche una goccia di latte caduta da un capezzolo, scesa da un margine di labbra ha in sé qualcosa di torbido; e di un’umanità ferita, ingenua, probabilmente in preda al proprio delirio, che non è che il delirio di esistere dentro il trauma (dell’essere nati).
COS’È VERO in questa storia di maternità frustrata, di corporeità che lambisce il limite dell’incesto, di coscienza (del dolore) sfociante in follia, nella disperata necessità di aggrapparsi alla carne tremula per non cadere nell’oblio? Non si capisce – ed è bene sia così: forse si sa in modo inconscio – si percepisce nel magnifico finale, quasi metafisico, di un acrocoro uggioso, apocalittico in cui erutta anche un vulcano – qualcosa che coincide con il fondo duro e violento del cosmo, con un buco nero, un abisso di sugna sorto per partenogenesi nel mezzo dell’immagine ferma, vivente.