di
Mario Platero
Il produttore del film: «Fece i vestiti per John Travolta, poi l’attore rinunciò alla parte nel film e dovette rifarli da zero per Richard Gere»
NEW YORK – Per capire cosa è stato Giorgio Armani per l’America occorre risalire al suo debutto in questo Paese quando, nel febbraio del 1980, disegnò gli abiti per Richard Gere in American Gigolò e cambiò per sempre la moda maschile americana. Il film, iconico, ingenuo per certi versi, fu accolto con sufficienza da una certa critica incapace di anticipare come gli Stati Uniti sarebbero stati travolti da quella rivoluzione reaganiana, anche edonistica, ancora di là da venire. Erano gli anni più duri della Guerra fredda, il comunismo bussava alle porte dell’Europa, gli Ayatollah avevano preso In ostaggio 66 americani. In Italia c’erano gli anni di piombo, le Brigate Rosse e l’assassinio di Aldo Moro. Come spesso accade, un film può segnare un’epoca e giocare d’anticipo su valori, morale, atteggiamenti di una società. Quel film, American Gigolò aveva tutti i requisiti per innescare una svolta. Fu scritto e diretto da Paul Schrader (autore di Taxi Driver e Raging Bull poi diretti da Martin Scorsese) e prodotto da uno dei pilastri della cinematografia americana, Jerry Bruckheimer (Top Gun, Black Hawk Down e altri fino al più recente successo, Formula 1, con Brad Pitt). Insieme consacrarono Richard Gere come grande attore americano e di fatto modello per gli abiti di Armani. In questa rarissima intervista, Bruckheimer racconta del suo incontro con la freschezza, la creatività e la naturalezza di Armani.
Perché Armani in American Gigolò?
«Paul Schrader vuole puntare sui costumi, inventare qualcosa di nuovo. Nel suo Taxi Driver il protagonista Robert de Niro è compulsivamente non sessuale e malvestito mentre l’American Gigolò è compulsivamente sessuale ed elegante. Dovevamo scuotere gli uomini americani. Ero d’accordo. Poteva essere un contributo innovativo importante per il film. Allora, gli uomini americani vestivano jeans e maglioni senza forma, goffi, severi, reduci dalle proteste e dall’influenza degli hippies. Una sfida affascinante e bellissima».
Come l’ha risolta?
«Chiamo un amico a Woman’s Wear Daily, gli chiedo: “Chi è il designer più innovativo oggi nella moda maschile?”. Non esita: “Giorgio Armani”. Gli rispondo: “Giorgio chi?”»
Non lo conosceva neppure di nome?
«No. E mi sarei aspettato un francese o un inglese. La moda italiana non era così affermata come lo è adesso. Armani in effetti vendeva già a qualcuno, ma era sconosciuto ai più».
E allora?
«Mi sono fidato. Chiamo Milano e chiedo di parlare con Giorgio. Tenga presente che a parte la Paramount che distribuiva e finanziava il film, anche io e Schrader eravamo agli inizi. Accetta e partiamo per Milano io, Paul e John Travolta».
John Travolta?
«Sì. Il ruolo di protagonista era suo. Era reduce dal successo globale di Saturday Nigh Fever. Era ideale come giovane raffinato disponibile a prestazioni sessuali a pagamento per ricche signore a Los Angeles. Così, arriviamo a Milano e andiamo in questo palazzo spettacolare, uffici meravigliosi di cui ricordo il gusto, gli affreschi sui soffitti, il personale silenzioso e presente e lui, Giorgio, bello, elegante, sicuro, sorridente, che dominava. Eravamo al posto giusto».
Avete parlato di affari?
«Anche di affari. Giorgio era un grande imprenditore oltre che essere un artista. Ma soprattutto del film, del ruolo che doveva avere per il gusto degli uomini americani. Capisce al volo. E con quel film cambia la moda degli uomini americani».
Come è andata?
«Prende le misure di John Travolta, ci mostra i tessuti che avrebbe usato, lini leggeri, shantung di seta, cotoni pregiati, tessuti lavorati e le cravatte, importantissime, e come si dovevano accostare al tutto. Un approccio ispirato e scientifico allo stesso tempo. Stabiliamo costi e tempi e partiamo. Arrivano gli abiti disegnati da Armani su misura per John. John fa delle foto per Variety e annuncia il suo ruolo nel film. Poi rinuncia all’improvviso. Aveva perso a 41 anni per cancro sua moglie, poi la madre, il padre non stava bene. Era distrutto, tristissimo: non poteva interpretare il ruolo di un personaggio leggero e complesso allo stesso tempo».
Così arriva Richard Gere!
«Non subito. Barry Diller, il capo di Paramount, voleva attori di grido. Sento Christopher Reeve e persino Chavy Chase ma rifiutano. Alla fine Richard, accetta. Per il ruolo femminile avevamo Meryl Streep, ma senza Travolta lascia anche lei. Prendiamo Laureen Hutton che fece benissimo».
Ma i vestiti erano già stati tagliati per Travolta!
«Un incubo! Anche perché John è molto più alto di Richard. Armani ha dovuto rifare tutto, modifiche, accorciare tagliare, e di corsa. E avevamo scritturato Gere solo due settimane prima di girare il film! Giorgio non batte ciglio. Mobilita i suoi e rimette tutto a posto. Un grande professionista. E Richard fu la scelta migliore. Indossava gli abiti in modo impeccabile, elegantissimo in ogni scena, sempre con qualcosa di diverso e con accouterments che l’uomo americano si sognava. Un vero modello da passerella».
Per l’uomo americano bastavano le immagini?
«C’è un messaggio esplicito anche nel dialogo. Julian Kay (Richard Gere) parlando con il detective che lo sta indagando per presunto omicidio gli dice: impara a vestirti, guarda come ti sta male quella giacca informe, guarda che orrendo tessuto… Ecco, quel momento diventa simbolico dello scossone che Giorgio Armani dà agli uomini americani, li cambia e lancia la sua meteora in un’orbita dalla quale non sarebbe più sceso».
Cosa l’ha colpita del suo incontro con Giorgio Armani?
«Sul piano personale gli racconto che ero di Detroit e che avevo cominciato come fattorino in un’agenzia di pubblicità. Mi disse che era di un piccola città italiana, che era arrivato a Milano per iniziare come vetrinista in un grande magazzino. Ci fu un momento di solidarietà. Tutti e due ce l’avamo fatta partendo da zero. In quel momento Giorgio dimostrò la sua grande umanità, quella che ha chi arriva partendo dal niente».
Aveva una percentuale sui ricavi del film?
«No. In una scena si vedono le camicie che sceglie Richard con il marchio Giorgio Armani e nei titoli appare la Giorgio Armani spa per aver vestito Richard Gere. C’era anche un altro italiano in quel film, un altro Giorgio: Moroder. Il tema del film, “Call Me” di Blondie, fu un successo globale. E per Giorgio Armani, beh, da allora, con l’uscita del film nel febbraio del 1980 diventa a sua volta protagonista, si lega a Hollywood, al tappeto rosso per gli Oscar e alle star, come Leonardo DiCaprio, che, come tanti, sarebbe diventato suo amico sincero».
8 settembre 2025
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