Vive come tutti gli altri, pur non essendo come nessun altro” scriveva Jean Cocteau di quella che resterà per sempre una fra le più grandi icone francesi. Della vita pubblica di un nome del calibro di Brigitte Bardot (che il 28 settembre compirà 91 anni) pensavamo forse di sapere già (quasi) tutto… ma capita che alcune scoperte riportino al presente nuove anime di un volto scolpito nella memoria collettiva.

Brigitte Bardot e l’intervista a “Mixer” del 1985: «L’isolamento è il mio più grande lusso»

È il caso di Brigitte Bardot: Intimate (Assouline), nuovo volume che di lei raccoglie scatti inediti di Ghislain “Jicky” Dussart (1924–1996), fotografo che iniziò la sua carriera come fotoreporter per Paris Match e France Soir, con testi dello scrittore e giornalista Fabrice Gaignault. L’origine? Cinematografica e, forse, anche un po’ romanzesca: una valigia rimasta per decenni in soffitta, piena di negativi mai sviluppati, che il figlio di Jicky ritrovò quasi per caso. Quelle immagini rivelano una Bardot lontana dai riflettori, colta nel suo quotidiano: i pomeriggi a La Madrague, i tuffi in mare, le serate tra amici e l’amore per la bossa nova.

Non la diva artefatta, ma una donna che ride, che fuma, che si lascia sorprendere spettinata al mattino. Accanto alle immagini è Gaignault (cresciuto nell’orbita di Bardot grazie all’amicizia dei suoi genitori con l’attrice) a intrecciare immagini con ricordi personali e parole della stessa Brigitte, che per quest’occasione ha rivisitato le foto accanto a lui, commentandole con ironia e dolcezza. Così, pagina dopo pagina, prende forma un autoritratto corale: intimo, libero, irripetibile.

Brigitte Bardot a Saint Tropez nella sua casa, La Madrague. © Ghislain Dussart

 

Saint-Tropez, esordio di un mito

“Ho sempre preferito un posto accogliente e caldo a tutti i posti pomposi, grandiosi e freddi in cui la gente mi prenotava quando viaggiavo e giravo film, pensando che mi avrebbero fatto piacere” B. B.
Altro che rosé e turismo patinato: negli anni Cinquanta Saint-Tropez non era ancora il mito che conosciamo, ma un tranquillo villaggio di pescatori. Con il carisma che per sempre la rese unica, fu Bardot a trasformarlo in palcoscenico internazionale. Quando nel 1956 Roger Vadim la rese immortale con Et Dieu… créa la femme, la piccola località divenne calamita di attori, scrittori, aristocratici e bohémien. Jicky Dussart, fotografo e pittore marsigliese, ne fu il testimone privilegiato: il suo obiettivo catturava feste improvvisate nelle cantine trasformate in discoteche, giornate a Pampelonne, brindisi infiniti tra sole e stelle. Bardot però non posava mai: davanti a lui si mostrava naturale, in sandali di corda, con un bicchiere in mano e il sorriso di chi non ha bisogno di artifici. «Le foto di Jicky sono vere, perché mi fidavo di lui completamente», ricordò anni dopo. In quel microcosmo di edonismo e leggerezza, Bardot divenne la musa inconsapevole di una generazione che voleva lasciarsi alle spalle il dopoguerra. Così Saint-Tropez smise di essere un porto qualsiasi e si fece archetipo.

Brigitte Bardot, il suo amato cane Guapa e l’attore Sami Frey. © Ghislain Dussart

La Madrague, rifugio e simbolo

Nel 1958 Bardot acquistò La Madrague, modesta casa di pescatori a picco sul mare, trasformandola in rifugio e simbolo di libertà. A differenza delle ville ostentate dei nuovi ricchi, La Madrague custodiva un’anima semplice: mobili di campagna, stoffe fiorite, souvenir raccolti durante i viaggi. Era una casa viva, popolata di animali, amici fidati e risate improvvise. Per Bardot rappresentò un rifugio contro l’assedio dei paparazzi, un nido difeso con determinazione da orde di curiosi che cercavano di violarne i cancelli. Nelle fotografie di Jicky, La Madrague diventa un teatro domestico: Bardot in bikini che cucina per gli amici, che suona la chitarra, che si prende cura dei suoi cani. Lì amava dire che avrebbe voluto essere sepolta, accanto ai suoi animali. Molti anni dopo, quando Pierre Dussart riaprì la “valigia magica” del padre, fu proprio a La Madrague che tornò per mostrarle le immagini: un cerchio che si chiudeva, in quella casa che più di ogni set ha raccontato l’anima segreta della diva.

Brigitte Bardot in Italia sul set di Contempt nel 1963. © Ghislain Dussart

Amori, amicizie e fragilità

“È molto più difficile restare Brigitte Bardot, che esserlo” B. B.
Il mito ufficiale racconta Bardot come femme fatale, simbolo di sensualità irresistibile. Ma i ricordi di Gaignault e le foto di Jicky mostrano un lato diverso: una donna che negli amori cercava protezione più che passione, e nell’amicizia un rifugio sincero. Jicky fu per lei il fratello che non ebbe mai, l’unico a restarle accanto in ogni stagione della vita. Tra gli uomini, le relazioni furono spesso tormentate: l’intensità con Jean-Louis Trintignant, la passione con Sami Frey, il matrimonio con Gunter Sachs. Con Serge Gainsbourg rimase un’attrazione mai consumata, che diede vita però a una delle canzoni più celebri della musica francese, Initials B.B. “Quella canzone fissò per sempre un’immagine: la donna che non ha bisogno di nulla, se non della propria leggerezza, per accendere il desiderio e l’immaginazione del mondo”, scrive nel libro Gaignault.
Eppure, dietro ogni amore c’era il bisogno di tenerezza, la ricerca di un porto calmo. «Non posso fare l’amore se non sono innamorata, ma mi innamoro ogni giorno», confessò una volta. Un paradosso che la rese fragile e libera insieme. Facile, al tempo, essere giudicata come fin troppo libertina. Ma nella sua indole autentica, Bardot dimostrò presto che nessuna etichetta poteva davvero rappresentarla. Solo con Bernard d’Ormale, compagno da oltre trent’anni, Bardot trovò infine quella stabilità che le era sempre sfuggita.

Brigitte e il regista Jean-Luc Godard in Italia, sul set di Contempt. © Ghislain Dussart

La celebrità: prigione dorata

Quando nel 1956 esplose il successo di Et Dieu… créa la femme, Brigitte Bardot divenne in un istante il volto del desiderio universale. Ma il prezzo di quella consacrazione fu altissimo: la “Bardotmania”, feroce quanto la “Beatlemania”, la trasformò in una preda costantemente braccata. Ogni gesto, anche il più intimo, veniva violato. Nel 1963, durante la gravidanza, fotografi appostati sugli alberi spiavano attraverso le finestre di casa sua; altri affittavano appartamenti dirimpetto solo per tenerla nel mirino. “La mia vita è una prigione dorata” ammise allora, “non appartengo più a me stessa, ma a tutti”. Il culmine arrivò in Brasile, a Rio de Janeiro: la folla di Copacabana la accerchiò in delirio, rischiando di travolgerla. Esausta, Bardot si affacciò a un balcone e, con un sorriso improvvisato, firmò quello che lei stessa chiamò il “trattato di pace di Copacabana”, placando la marea umana. Ma il trauma restò. A Cannes, nel 1967, la calca la schiacciò e la fece cadere: fu l’ultima volta su un red carpet. Da allora scelse di ritirarsi, come i Beatles smisero i concerti dal vivo: e non per mancanza di attenzione, ma per il suo opposto. Del resto anche Jean-Paul Sartre, da vero esistenzialista, spiegava che se essere liberi è la condizione fondamentale dell’uomo, un eccesso d’amore sarebbe entrato in conflitto con quella stessa libertà.

Brigitte nel suo camerino per la registrazione dello speciale televisivo “Bonne Année Brigitte” nel 1963. © Ghislain Dussart

 

Marilyn e Bardot

Negli anni Sessanta, due donne regnavano sul cinema mondiale del dopoguerra: Marilyn Monroe e Brigitte Bardot. Le accomunava un’aura assoluta. Nel 1956, a Londra, si incontrarono fugacemente davanti a Elisabetta II come due divinità, una accanto all’altra, eppure incapaci di andare oltre poche parole banali. La storia prese presto strade diverse: Marilyn morì tragicamente nel 1962, sola a Brentwood, mentre Bardot sopravvisse a due tentativi di suicidio, trovando infine la forza di ritirarsi. Ma le legava un destino comune. Entrambe prigioniere della propria immagine, entrambe trasformate in specchi del desiderio collettivo. Se Marilyn fu l’icona americana della fragilità, Bardot incarnò la Francia libera e anticonformista, tanto da diventare Marianne, volto ufficiale della Repubblica.

Brigitte Bardot. © Ghislain Dussart

I registi di una vita

“Arrivai nel cinema quando l’immagine della donna stava cambiando. Ero quella che arrivò in quell’esatto momento. Ero la bomba giusta al momento giusto” B. B.
Se il fascino di Bardot fosse stato uno dei vinili da lei tanto amati, tre sono i registi che su di lei seppero incidere la melodia perfetta: Henri-Georges Clouzot, Louis Malle e Jean-Luc Godard. Con Clouzot girò La vérité (1960), un ruolo drammatico che la portò allo stremo ma che considerò sempre il suo capolavoro. Con Malle, in Vita privata (1962), recitò quasi il suo stesso destino: una star braccata dalla fama. In Viva Maria! (1965), accanto a Jeanne Moreau, mostrò invece un lato ironico e travolgente (“Non eravamo amiche” precisò più tardi Bardot “eravamo complici, come solo due sorelle possono esserlo”). Infine Godard, con Il disprezzo (1963), la rese Camille, moglie ferita e disillusa, in un film che divenne un manifesto della Nouvelle Vague… un grande regista con cui Brigitte non entrò proprio in intimità: “Mi dava sui nervi” confessò poi. “Con quel cappellino ridicolo, ci faceva improvvisare i dialoghi all’ultimo minuto. Nessuna struttura, nessuna direzione”. Clouzot l’aveva spinta al limite, Malle la capì e la rispettò, Godard la irritò ma la consegnò alla storia: tre modi diversi di ritrarre un’unica, inafferrabile Bardot.

Il libro

Brigitte Bardot: Intimate, Assouline, 272 pagg, 120 €