Spike Lee ci ha riprovato, tornando a realizzare un altro remake di un capolavoro del cinema asiatico. Se la sua versione di Oldboy (2013) – qui trovate la nostra recensione di Oldboy – era uscita con le ossa rotte nei confronti dell’originale di Park Chan-wook, con Highest 2 Lowest le cose sono andate discretamente meglio. Sia chiaro, l’originale di Akira Kurosawa da noi conosciuto come Anatomia di un rapimento (1963) rimane tutt’oggi insuperabile, una vera e propria pietra miliare, ma Highest 2 Lowest è in ogni caso un avvincente aggiornamento, in grado di riflettere con una certa lucidità sui mali della società contemporanea.
È con una certa riverenza che ci si pone di fronte all’opera di un maestro. Spesso, quando l’arte diventa eco di sé stessa in forma di remake, la domanda principale è quale sia la sua ragione d’essere. E in questa rilettura moderna, contestualizzata in quell’ambiente black della Grande Mela, il regista che più di tutti ha celebrato la cultura afroamericana nella storia recente del cinema ha colto la palla al balzo, tra citazioni, omaggi e spunti originali, firmando un adattamento diverso e non privo di spunti del romanzo Due colpi in uno di Ed McBain, già alla base del film giapponese.
Highest 2 Lowest: dall’alto in basso
È una scelta di campo, una scommessa chiara ma vinta, seppur con qualche imperfezione qua e là. Una rivisitazione di un’opera titanica, un film che non soltanto ha definito il genere del thriller procedurale, ma che era anche un’intensa riflessione sulla moralità ancor oggi attualissima, con il discorso sulla lotta di classe e l’etica individuale in una società del dopoguerra. Il cineasta newyorchese si confronta con l’eredità di Kurosawa, smussandone qua e là i passaggi più tragici e finendo per decantare uno specchio dei tempi in un presente schiavo dei social media. Ma andiamo con ordine e scopriamo chi sono i protagonisti di Highest 2 Lowest e quali sono le principali differenze con l’originale.
In Anatomia di un rapimento, il prospero dirigente di un’azienda di scarpe, Kingo Gondo – interpretato da Toshiro Mifune – si trovava sull’orlo di un affare cruciale, per il quale aveva ipotecato persino la propria casa, quando una telefonata lo informa che suo figlio è stato rapito. Ma la verità viene presto a galla, con i rapitori che hanno commesso un errore e sequestrato in realtà il figlio del suo autista. Il maestro nipponico poneva così il suo protagonista di fronte a un dilemma morale, costringendolo a scegliere tra la sua intera fortuna e la vita del figlio di un’altra persona.
Allo stesso modo, in Highest 2 Lowest, il mogul della musica David King (Denzel Washington) è a un passo dal concludere un accordo fondamentale da 17,5 milioni di dollari. Anche per lui, la minaccia di un rapimento con relativo e omologo scambio di persona, lo mette davanti a una scelta che potrebbe farlo crollare professionalmente.
Senza un attimo di tregua
Spike Lee opta per una trasposizione che non si limita a un cambio di coordinate geografiche, ma realizza una sfrontata avventura metropolitana a ritmo di rap, che si propone al contempo come una lettera d’amore a New York, palcoscenico determinante nelle fasi chiave del racconto. David King vive in un lussuoso attico che si estende su una Manhattan pulsante di vita, con le scene che hanno luogo durante la Puerto Rican Day Parade o sui vagoni della metro che sottolineano ulteriormente la frenesia di una città cosmopolita e brulicante.
Se nel prototipo l’atmosfera noir, torbida e ambigua prendeva via via il sopravvento nella moralità di personaggi perfettibili e tormentati, qui la storia propende per una svolta maggiormente thriller, con tanto di resa dei conti nella mezzora finale dal taglio action. Azione che d’altronde non manca nemmeno prima, con il passaggio della consegna del riscatto ad alta dose tensiva, in una messa in scena consapevolmente muscolare.
Allo stesso tempo Highest 2 Lowest vuole criticare e affrontare i demoni dello show business, mostrando come le persone siano ormai disposte a tutto pur di raggiungere il successo e come la massa non si faccia scrupoli nell’eleggere a potenziali star dei cattivi maestri. Lo fa con un discorso sicuramente interessante ma che nelle mani spesso corrosive di Lee avrebbe potuto e dovuto risultare ancor più cinico e tagliente, sembrando invece fin troppo timido e assoggettato alle logiche di un’anima quasi “commercial”, con tanto di slang e battle-rap improvvisate a immergere ulteriormente nella cultura “nera” del racconto.
Black & White
La crisi del protagonista, interpretato con totale aderenza da un volitivo Denzel Washington “per tutte le stagioni”, lo vede alle prese con il desiderio di riconnettersi con una cultura che sente di aver smarrito e di cui vuole riaffermare l’autenticità, cercando al contempo di rimettere in piedi il rapporto con quel figlio ossessionato dal cellulare e dalle visualizzazioni. Ma sarà proprio internet e la rinnovata fama, per quanto in circostanze nefaste, a ridonare inaspettate speranze e fare da contraltare ai lati negativi del marketing, qui espletato nelle sue idiosincrasie più agli antipodi.
Se Kurosawa ci aveva abituato a una meticolosa, chirurgica, attenzione ai dettagli investigativi della polizia e alle dinamiche del piano – basti pensare alla sequenza del treno, un qualcosa di indimenticabile – Spike Lee decide di prendere una strada diversa, riducendo volutamente il ruolo delle forze dell’ordine a un livello secondario, lasciando che siano invece i personaggi principali, con Jeffrey Wright a coadiuvare il protagonista, a sbrigarsela da soli.
Un atto di denuncia voluto, in quanto la comunità afroamericana negli Stati Uniti ha sempre meno fiducia in chi dovrebbe proteggerla, spesso di etnia bianca, e un chiaro messaggio sul rapporto in profonda crisi con le istituzioni. E un richiamo a quella “giustizia-fai-da-te” che Oltreoceano tiene sempre banco, qualsiasi governo sia al potere.