Lui è ancora Manu del rione Gescal, anche se ormai è abituato a ben altra edilizia: «Io la fila di ore e la fatica che hanno fatto questi ragazzi, sotto il sole, per un concerto non l’avrei fatta mai», confessa. Per loro si è inventato uno show «democratico»: «Quelli della zona verde, la più lontana dal palco, la più economica, non vedono quasi niente, per cui ho pensato a un momento dello show in cui fossero loro quelli più vicini a me, o quasi». Geolier celebra con la semplicità dello scugnizzo cresciuto in fretta il primo dei suoi due concerti (stasera si replica) all’ippodromo di Agnano, roba da 116.000 spettatori. E, per non discriminarne nessuno, inizia il suo show dei record in alto, a 18 metri d’altezza, su una pedana sopraelevata, beni visibile a tutti, con un freestyle identitario dal flow affilato e spietato.
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E, poi, affida a 500 droni (avete letto bene: 500), completamente automatizzati, gestiti da un software di controllo avanzato, il primo volo della notte, quello che gli permette di scrivere nel cielo sopra la pista dei cavalli il suo nome, di disegnare la sagoma (con pallone) di Maradona, la parola Napoli, un romanticissimo golfo con il Vesuvio, l’annuncio dell’appuntamento prossimo venturo: il 26 giugno 2026 al Maradona. Dall’IppoDrone show al Maradrona show. Ma una data sola dopo le tre (record assoluto) del 2024? «Iniziamo con una, poi vediamo», sorride lui sornione ricordando quando si metteva con un microfono davanti allo specchio, solo soletto, e la mamma lo prendeva per scemo: «Era la mia strada, yes I know my way avrebbe detto Pino Daniele. Grazie Napoli, che hai trasformato in realtà il sogno di quel ragazzo nella sua cameretta».
Tenera è la notte dove il rap e la melodia si danno la mano, dove tutti, inzuppati di sudore e di gioia, cantano a squarciagola: «Money» «Nu parl, nu sent, nu vec», «Emirates», «Napo****no», «Dio lo sa», «Mai per sempre», «Chiagne» (primo «feat», Lazza naturalmente), «So fly», «L’ultima poesia» (senza Ultimo), «Me vulev fa ruoss», «X caso – M’ manc». Poi il volo lo prende lui, letteralmente, librandosi nel cielo su Agnano da una pedana al centro del campo, saltando, rimbalzando, facendo capriole, mentre esplodono «Campioni in Italia» e «P’ Secondigliano»: «Mi è venuto naturale farlo, un po’ ha stupito anche me, ma per cantare ti serve il diaframma, puoi pure salticchiare un po’ mentre lo fai», aveva spiegato prima, confessando di averlo visto fare ad artisti come Chris Brown, «ma io sono il primo in Italia».
Come coi droni, record che sono piccole soddisfazioni in una giornata torrida e in una nottata ancor più calda, dove i laser e le fiamme sono cornice di un sound compatto, con band, dj (Poison Beatz, naturalmente), orchestra e «friends» (ci sono anche Rocco Hunt su «Che me chiamme a fa?» e «Nisciun», Mv Killa su «Cadillac», Lele Blade su «Heets», gli Slf al completo su «Cls», Luche’ su «Ginevra» urlata dai cinquantottomila all’unisono) sono ciliegine sulla torta, è Manu dal rione Gescal l’uomo solo al comando, lo scugnizzo che non si sente re nè voce di Napoli: «Sbaglia chi dice che io sono Napoli: è Napoli che sta dentro di me, sono i napoletani, e non solo loro, che mi hanno scelto. Sì, la mia è anche una storia di riscatto, vengo dalla periferia, ma non ho sofferto quello che hanno patito i primi rapper, quelli come Guè. “PSecondigliano” prima e Sanremo dopo mi hanno cambiato la vita. Sono passato velocemente dalle serate per cento persone sulle basi agli stadi. Il Festival ha fatto il resto: non per il successo, non per il secondo posto, non per le polemiche. Perché è un massacro e se ne esci dopo sei pronto a tutto». Anche a tornarci? Magari l’anno prossimo? «Vediamo, febbraio è lontano», il solito sorriso di chi già sa, ma non vuole dirlo.
Stessa storia sul prossimo disco: «L’anno prossimo, oltre al Maradona, erba di casa mia, mi aspettano il mio primo San Siro, il mio primo Olimpico. Un po’ mi tremano le gambe, ci vorrà musica nuova da proporre». Parla di un disco che in qualche modo è nato a Los Angeles: «Sono andato a cercare musica nuova, suoni nuovi, ispirazione nuova. Ho incontrato… poi vedrete, anzi sentirete nell’album. Io sono un fan di 50 Cent e speravo davvero di conoscerlo, si diceva dovesse venire a Napoli e invece… Con lui prediligo il rap della East Cost, ma ascoltare “California love” di Tupac Shakur a casa sua, sulla West Coast è… magia».
È ancora un fan, Manu del rione Gescal, «e spero di restarlo per sempre, questa non è una fatica, è un gioco, io pareo, anche se lavoro serio, molto». Che cosa chiede ancora Emanuele Palumbo, il giovane principe di una Napoli che non fa figli e figliastri? «Alzo l’asticella ogni volta, non per fare numeri, ma per non adagiarmi, per dare a chi mi viene a vedere, magari a rivedere, ogni volta qualcosa di nuovo. Per questo sto per lanciare un piattaforma, G-Fam, per chi mi segue da sempre, per questo dopo gli stadi mi piacerebbe fare un tour nei teatri. Sogno una notte al San Carlo, solo piano e voce, per far vedere che so cantare, magari iniziando con un omaggio a Mario Merola, alla tradizione napoletana. Gli stadi sono dispersivi, ne ho parlato con Jovanotti, gli ho chiesto perché fa così tanti palazzetti anziché concentrarsi sugli stadi, mi ha spiegato che sono spersonalizzanti, ed ha ragione». Per ora, però, è tempo di megaraduni per lui, il San Carlo può attendere, vedremo che cosa ne penserà il prossimo sovrintendente.
Le tre ore di show che hanno paralizzato la circolazione intorno ad Agnano chiudono al galoppo, non certo al trotto: «El pibe de oro», «I p’me tu p’te» («voglio portare Napoli nel mondo, lo hanno già fatto tanti, ma io voglio portarla con la lingua dei giovani napoletani di oggi»), «Come vuoi», «Finché non si muore», «Give you my love».
Stasera si replica, Napoli gli ridarà il suo amore: «Mi trovo a parlare con persone che pensano che Napoli sia ancora come prima, e invece oggi si sta bene, ed è sempre la città più bella del mondo. Ma qualche volta mi ha deluso: miei fratelli che se ne sono andati troppo presto, dobbiamo capire che la vita è una sola, non va sprecata. La mia Napoli è quella dei ragazzi che ascoltano le canzoni d’amore in macchina, quella quartierana che sta scoprendo l’invasione dei turisti, che ora è piena anche di concerti e, grazie a De Laurentiis, anche di campioni come De Bruyne. Il presidente è una bandiera, non io, Pino Daniele è una bandiera, non io». Però, se mai dovesse tornare all’Ariston, lo farà «in napoletano, è la mia lingua, io quella saccio usa’». E poi via, come un angelo hip hop nel cielo sopra Agnano. Con un velo di tristezza: «Ho saputo che oggi tre persone sono morte sul lavoro, non ne so di più, ma a volte a Napoli si fa di tutto per un lavoro». Perché per Manu, per Emanuele Palumbo e per Geolier non sono solo canzonette.