Rallentare l’invecchiamento dell’ovaio per prolungare la durata della vita in buone condizioni fisiche. È questa l’ultima frontiera della ricerca sulla salute della donna che mira a rimandare il più possibile la menopausa e tutte le malattie croniche a essa potenzialmente associate: dall’osteoporosi al rischio cardiovascolare fino al declino cognitivo.

Come? Con i cosiddetti farmaci “geroprotettori”, capaci di rallentare i processi fondamentali dell’invecchiamento, estendendo così la durata della vita in salute. Tra questi anche la rapamicina, un medicinale già utilizzato per prevenire il rigetto dei trapianti di organi, che negli ultimi anni ha acquisito un ruolo centrale nella ricerca sull’invecchiamento e la longevità. Tanto da essere già stato testato in un trial clinico pilota, lo studio Vibrant (Validating Benefits of Rapamycin for Reproductive Aging Treatment, NCT05836025), tra i primi a esplorare l’impatto dell’immunosoppressore rapamicina sull’invecchiamento ovarico.

A portare avanti la ricerca Zev Williams, direttore del Columbia University Fertility Center e Yousin Suh, direttrice del programma di Invecchiamento Riproduttivo dello stesso istituto, incoraggiati dai risultati ottenuti dal farmaco negli studi preclinici.

Una crescita di interesse

L’interesse per la menopausa però non si ferma qui. Da sempre trascurata da corsi di laurea, dibattiti, finanziamenti e ricerca, questa fase della vita negli ultimi tempi, sembra infatti riscuotere un certo interesse da più fronti. Alcuni ricercatori stanno rivalutando la terapia ormonale sostitutiva e il momento ottimale per iniziarla, dopo anni di scarsa attenzione.

Mentre in Europa aumentano le iniziative: la Commissione europea ha inserito la salute delle donne, compresa la menopausa, tra le priorità dei programmi EU4Health e Horizon Euro-pe e il centro Driv – Centre for Women’s Health Research dell’Università di Bergen (UiB), in Norvegia, ha chiesto un rafforzamento della ricerca europea in vista del prossimo ciclo di finanziamenti. Nel Regno Unito, il National institute for health and care research (Nihr) ha sostenuto progetti per migliorare la gestione dei sintomi e l’accesso alla terapia ormonale sostitutiva.

In Italia, nel 2024 il ministero della Salute e l’Istituto superiore di sanità hanno promosso un tavolo tecnico sulla salute della donna che include la menopausa tra le aree prioritarie, e alcune Regioni hanno avviato campagne di sensibilizzazione e ambulatori dedicati. Negli Stati Uniti invece, nel 2024 l’amministrazione Biden ha stanziato 113 milioni di dollari per la ricerca sulla salute femminile. Nello stesso periodo l’Advanced research projects agency for health (Arpa- H), un’agenzia governativa con un ruolo chiave nella White House Initiative sulla salute delle donne, ha finanziato un progetto per sviluppare un farmaco che prolunghi la funzione ovarica per tutta la vita. Come la rapamicina appunto.

I farmaci geroprotettori

L’invecchiamento è uno dei maggiori fattori di rischio per la maggior parte delle malattie croniche, la cui incidenza aumenta drammaticamente dalla mezza età in poi, sia negli uomini che nelle donne. Per questo da tempo i ricercatori hanno iniziato a studiare i meccanismi fondamentali alla base della senescenza, con l’idea di ritardarli e rimandare l’insorgenza e la progressione di molte, se non tutte, le malattie croniche legate all’età. “L’ipotesi della geroscienza si basa su decenni di ricerche condotte in organismi modello”, spiega Yousin Suh nel corso di un talk tenuto lo scorso aprile in occasione degli National Institutes of Health (Nih) Wednesday afternoon lecture (Wals).

“Abbiamo ormai compreso che l’invecchiamento non è una semplice ‘usura’, ma un processo regolato da meccanismi biologici precisi, controllati da geni e pathway. Intervenendo su questi target è possibile estendere la durata della vita e, soprattutto, della salute nei modelli preclinici. I farmaci che agiscono su questi processi fondamentali, con l’obiettivo di rallentare l’invecchiamento, vengono oggi definiti geroprotettori”.

Rallentare l’invecchiamento dell’ovaio

L’ovaio in questo contesto è un organo emblematico perché è uno dei primi a invecchiare e lo fa in una maniera rapida, già a partire dai 30 anni e fino ai 51 circa, con l’arrivo della menopausa. Un processo, quest’ultimo, i cui ritmi sono rimasti immutati negli anni, come fa notare la stessa Suh. Nel frattempo l’aspettativa di vita umana è aumentata nel corso dei decenni, con la conseguenza che sempre più donne vivono una parte sempre maggiore della loro vita in stato post-menopausale, spesso proprio quando sono al culmine della loro carriera professionale. Con tutte le conseguenze che questa fase comporta.

“Sappiamo che la menopausa è associata a effetti negativi sulla salute cognitiva, immunitaria, ossea e cardiovascolare”, precisa Suh. “Le analisi basate sull’età epigenetica mostrano infatti che la menopausa accelera i processi di invecchiamento e a questo fenomeno contribuisce anche una componente genetica. Non a caso, le donne che entrano in menopausa più tardi tendono ad avere una maggiore longevità rispetto a quelle che vi giungono precocemente”.

La rapamicina

Per comprendere la biologia sottostante all’invecchiamento ovarico il team di Suh ha condotto lunghi studi combinando dati genetici umani con i set di dati multiomici dell’epigenoma, che hanno permesso di identificare varianti e geni (come HELB), che influenzano la velocità dell’invecchiamento ovarico. Tra le vie individuate, quella di mTOR (una proteina chiave che regola la crescita, il metabolismo e la sopravvivenza delle cellule) in particolare, è emersa come un possibile bersaglio per farmaci in grado di rallentare l’invecchiamento delle ovaie e preservare la fertilità.

“La via di segnalazione mTOR rappresenta uno dei principali meccanismi di controllo dell’invecchiamento” spiega Suh. “Il suo inibitore, la rapamicina, è considerato il geroprotettore più solido conosciuto: indipendentemente dal laboratorio che lo ha testato, i risultati sono sempre stati coerenti, mostrando un aumento della durata della vita e della salute in tutti gli organismi modello studiati finora. Le nostre analisi indicano che l’attività della via mTOR aumenta in tutti i tipi cellulari dell’ovaio, suggerendo che questo organo possa rappresentare un potenziale bersaglio geroterapeutico della rapamicina. Un’ipotesi confermata anche da studi preclinici: nei topi, infatti, il trattamento con rapamicina prolunga la vita ovarica, preserva la fertilità e mantiene la riserva ovarica, persino in condizioni di stress come la chemioterapia”.

Lo studio Vibrant

Con queste premesse lo scorso anno Suh e Zev Williams hanno avviato uno studio pilota, prova di concetto, randomizzato controllato con placebo, che ha arruolato circa 50 donne ancora in età fertile (35-45 anni) la metà delle quali ha ricevuto la rapamicina, ma a dosi più basse, pari a 5 mg a settimana per 12 settimane, rispetto ai 13 mg al giorno che possono essere prescritti ai pazienti sottoposti a trapianto. L’obiettivo non è tanto estendere la fertilità, quanto rallentare la velocità con cui le ovaie invecchiano.

I risultati dello studio – che sta per concludere la sua fase di follow up – non sono ancora noti, ma “la buona notizia è che non ci sono effetti collaterali o tossicità evidenti e persino il ciclo mestruale non è stato alterato”, ha affermato Suh che pensa il farmaco possa ridurre la perdita mensile di follicoli ovarici da circa 50 a circa 15, rallentando così l’invecchiamento delle ovaie del 20%, senza che le donne sperimentino gli effetti collaterali tipici della rapamicina.

Le partecipanti allo studio finora hanno riportato miglioramenti nella loro salute, nella memoria, nei livelli di energia e nella qualità della loro pelle e dei loro capelli. La dose utilizzata non ha bloccato né l’ovulazione né le mestruazioni, ma non si sa ancora se la qualità dei follicoli peggiorerà nel “tempo extra” che le ovaie vivranno, producendo così ovuli più inclini a contenere anomalie genetiche.

Possibili applicazioni (non per tutte)

“Sapevamo funzionasse con gli animali e ora sappiamo che è sicuro per gli umani” ha detto Williams, convinto che oltre alla rapamicina in futuro saranno valutati anche molti altri agenti geroprotettori sull’ovaio. “Ora abbiamo solo bisogno di uno studio più ampio per mettere insieme entrambe le parti”. Trial, il Vibrant II, che coinvolgerà circa mille donne e partirà non appena concluso il pilota.

Potenziali farmaci che come la rapamicina potrebbero rallentare l’invecchiamento ovarico – a cui pare stiano già lavorando alcune aziende come Tornado Therapeutics impegnata nello sviluppo di “rapalogs”, analoghi della rapamicina – potrebbero essere utilizzati nell’immediato per le donne che vanno incontro a menopausa precoce, cioè prima dei 45 anni, una condizione generalmente associata a maggiori rischi per la salute.

Tuttavia, questa potrebbe non essere una soluzione adatta a tutte. Oltre a considerazioni etiche che potrebbero portare alcune donne a non voler posticipare la menopausa, per altre – affette da disturbi come fibromi, mestruazioni dolorose, endometriosi, emicranie mestruali o sindrome premestruale severa – la sospensione delle mestruazioni potrebbe invece rappresentare un vantaggio.

La ripresa della terapia ormonale

C’è poi il grande capitolo della terapia ormonale sostitutiva (Tos) che secondo alcuni esperti è la via più sicura per trattare i sintomi della menopausa. La Tos consente di reintegrare gli ormoni sessuali carenti, in particolare estrogeni e progestinici, prevendo così alcuni sintomi, come la perdita di massa ossea e l’osteoporosi e potrebbe offrire ulteriori benefici sistemici a lungo termine. Come ricorda Lynne Peeples su Nature, “la terapia ormonale sostitutiva fu usata per decenni, ma poi nel 2002, uno studio della Women’s Health Initiative (Whi) (pubblicato su Jama n.d.r), segnalò un lieve aumento del rischio di cancro al seno, infarto e ictus nelle donne che assumevano estrogeno e progestinico. Le prescrizioni crollarono: negli Stati Uniti passarono da circa il 40% a meno del 5%. Lo stesso accadde a livello globale”.

Nuove evidenze

Oggi però la Tos sembra essere in ripresa e molti medici sostengono che i benefici superino spesso i rischi. Sia perché sono state messe a punto nuove formulazioni come cerotti e gel transdermici che hanno mostrato rischi minori di cancro e problemi di coagulazione rispetto alle versioni precedenti. Sia perché studi successivi hanno messo in luce limiti e interpretazioni errate dello studio della Whi. Una su tutte il fatto che la maggior parte dei partecipanti al trial aveva più di 60 anni, oltre i dieci anni dalla menopausa, periodo di tempo entro il quale andrebbe iniziata la terapia ormonale.

Gli stessi autori dello studio, inoltre, nel maggio del 2024 hanno pubblicato una revisione su Jama Network Open che evidenziava come il dosaggio, la formulazione e la via di somministrazione usate nei trial Whi (solo orale) non corrispondono a quelle attuali. Le dosi infatti oggi sono inferiori e spesso si usano ormoni bioidentici. Ancora, uno studio pubblicato nel 2019 su The Lancet dimostra che l’incidenza del cancro al seno nelle donne che utilizzano Tos per cinque anni aumenta solo del due per cento rispetto alle donne che non assumono terapie ormonali.

Cambio di rotta

Tutto questo, lo scorso luglio, ha portato la Food and drug administration ad esprimersi in favore della rimozione di ogni avvertenza sui rischi della terapia per le donne in menopausa. L’ente statunitense ha infatti ospitato il Fda Expert Panel on Menopause and Hormone Replacement Therapy for Women che ha discusso dei rischi e benefici della terapia ormonale per la menopausa (in particolare sui rischi di cancro al seno, cancro uterino e alcuni rischi cardiovascolari, rispetto ai potenziali benefici su ossa, apparato genitourinario, salute cardiovascolare e cognitiva) aprendo infine un dossier per permettere la presentazione di commenti pubblici e dati.

A giustificazione Marty Makary nuovo commissario dell’agenzia governativa, ha spiegato che: “Oggi sappiamo che quando una donna inizia le cure ormonali entro un anno dal climaterio, i suoi rischi di infarto e malattie cardiache in realtà scendono del 25-50 per cento”.

Servono più ricerche

In Italia invece, un’indagine condotta nel 2022 dalla Fondazione Onda “La menopausa nella vita delle donne” (si veda il numero 212 del magazine) aveva rivelato che soltanto il cinque per cento delle donne ricorre alla terapia ormonale sostitutiva, mentre viene fatto ampio utilizzo di integratori alimentari (27 per cento) e di prodotti erboristici (17 per cento). Il risultato di una cattiva comunicazione scientifica secondo Tommaso Simoncini, professore del dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Pisa, originata sempre a partire dal già citato studio della Whi.

Certo è che oggi non esiste una terapia “taglia unica” in grado sia di alleviare i sintomi sia di proteggere dai rischi di malattie croniche future: il trattamento dovrebbe essere personalizzato e deciso in modo condiviso tra medico e paziente.

Sono necessari poi ulteriori studi. Per esempio nelle donne in perimenopausa, per cui – come scrivevano gli autori di una review pubblicata nel 2023 su Cell – “la maggior parte dei regimi di Tos non è approvata. “Sono necessari studi che includano donne in perimenopausa per determinare efficacia e sicurezza delle opzioni terapeutiche” concludono. “Ulteriori ricerche sono fondamentali per migliorare la cura della menopausa, così come per guidare le politiche sanitarie e la pratica clinica”.