È inevitabile che la lettura del volume di Susan Stewart (Un mondo di rovine. Storia artistica di un’irresistibile suggestione, tradotto da Giovanna Mancini, adattamento note di Paola Pizzoli, Aboca editore, pp. 552, euro 69) avvenga con sguardo strabico. Docente presso la Princeton University e poeta (la raccolta Colombarium, tradotta anche in italiano nel 2006, ha ottenuto il National Book Critics Circle Award), Susan Stewart ha pubblicato studi critici, a loro volta premiati più volte, che esplorano diversi campi della riflessione estetica, mettendo in dialogo arte e letteratura attraverso affascinanti percorsi storici e analitici.

COSÌ, ANCHE QUESTO LIBRO sulle rovine, avvalendosi peraltro di numerose illustrazioni che si apprezzano in sé stesse come un testo nel testo, mette al centro le opere d’arte considerate come «paradigma del conflitto tra le credenze e le pratiche relative al materialismo e al valore». Tuttavia, è impossibile scorrerne le pagine senza continuamente guardare altrove e sentire il pungolo delle nostre rovine contemporanee. Quelle delle tante, drammatiche guerre in corso, certamente, che ci impediscono di scindere la rappresentazione simbolica delle rovine dall’esigenza di costruire delle soluzioni giuste e di interrompere le sofferenze che a quelle rovine si accompagnano. Ma anche quelle rovine che possiamo riconoscere nella misura in cui mettiamo a fuoco, scriveva Bernard Stiegler nel suo La miseria simbolica, che la «questione politica è una questione estetica, così come, inversamente, la questione estetica è una questione politica», la questione estetica essendo «quella del sentire e della sensibilità in generale».

Dunque, rovine come macerie di luoghi, edificazioni, spazi, nonché come crescente distruzione degli ecosistemi e impoverimento della biosfera. Ma anche le rovine del sociale attraverso il progressivo immiserimento delle condizioni (cognitive, relazionali, simboliche) di riproduzione del legame sociale e della solidarietà umana.

A rovinare è quindi sia il mondo che ci circonda, sia l’esperienza che siamo capaci di farne, insieme e come individui. Per questo è importante non sprecare il potere di «impartire lezioni» che le rovine posseggono, scrive la stessa Stewart, nel momento in cui le leggiamo «sia nella loro concretezza – come oggetti presenti – che come rappresentazioni simboliche». E la lezione che le rovine ci consegnano oggi non può che essere diversa da quella che, ad inizio Ottocento, ne celebrava il fascino poiché tutti gli uomini «hanno una segreta attrazione per le rovine» (de Chateaubriand). Se infatti il «piacere delle rovine», teorizzato da Bernardin de Saint-Pierre nel 1784 si fonda sulla possibilità di osservarle, in quanto simbolo di distruzione e quindi di pericolo, da una condizione di sicurezza, quella cioè di chi osserva un naufragio (metafora di qualsiasi sciagura) da un luogo rassicurante e protetto (la fondamentale metafora lucreziana del «naufragio con spettatore»), nel nostro caso a prevalere è piuttosto sempre più l’inquietudine.

ANCHE NEL VENTESIMO secolo imperversa la «pornografia delle rovine» grazie, ricorda Stewart, alla possibilità dell’esperienza indiretta offerta dalla fotografia. Ma la lezione che il rovinare contemporaneo, nel senso molteplice sopra ricordato, ci impartisce è quella di spingerci ad elaborare una politica delle rovine, poiché essere riguardano tutti. Nessuno di noi abita più un luogo così protetto e rassicurante da potersi concedere il piacere di osservare le rovine contemporanee senza sentirsene coinvolto e toccato. Le rovine che ci circondano riguardano la polis umana nel suo insieme e dunque esigono di farne esperienza politica poiché sono rovine – materiali, sociali, ambientali e simboliche – che riguardano il modo di vivere di noi tutti, che ci interrogano e ci coinvolgono. Le nostre forme di vita – in modo differenziato, per classe e luogo d’appartenenza – sono allo stesso tempo oggetto e causa di rovina.

Anche osservandole asserragliati nell’Hotel Abisso, la percezione che le macerie possano travolgerlo si fa sempre più intensa. Non a caso, già nel sottotitolo della ricognizione sulle ecologie human-disturbed dell’Antropocene divenuta oramai un classico, l’antropologa Anna Tsing chiariva che l’oggetto del suo lavoro era la possibilità di vivere «nelle rovine del capitalismo».

Il libro di Stewart percorre un itinerario differente e rappresenta una preziosa opportunità per comprendere come e fino a che punto le rovine facciano parte dell’orizzonte culturale cui apparteniamo. Esse ne costituiscono un tema centrale, del quale Alain Schnapp ha realizzato una monumentale «storia universale» (Einaudi, 2023). L’approfondita ricerca di Stewart è introdotta da una sintetica ricostruzione del modo in cui nel corso dei secoli è evoluto e si è modificato il «valore delle rovine» nell’economia simbolica del discorso artistico. Successivamente, i diversi capitoli, anche seguendo un filo cronologico, esplorano tale evoluzione a partire da angolazioni diverse. Intanto la centralità della materia che se riconosciuta «non solo come potenziale destinato all’appropriazione umana, ma anche come realtà, conduce ad una visione della natura in sé e per sé che ammette l’estraneità dell’uomo a essa e la cruda antinomia tra il desiderio umano e il corso della natura». Il fervore delle iscrizioni e delle incisioni e dunque il desiderio di essere ricordati che, tra i Romani, era pari ad un altrettanto intensa attività di cancellazione (la damnatio memoria).

LE ROVINE COME SPOLIA, di cui appropriarsi in senso sia materiale (per nuove edificazioni), sia ideologico (per conferire autorevolezza a nuovi artefatti), sia in senso artistico (ad esempio, le rovine come sfondo della natività). Nel capitolo dedicato a «Ninfe, vergini e puttane», il tema è invece il modo specifico in cui la rovina è associata alle donne: laddove esse sono «considerate un oggetto o una proprietà (…) la rovina è valutata all’interno di questo sistema ed è unicamente legata al valore del loro corpo».

Nel contesto dell’umanesimo, a partire dal XV secolo, e soprattutto attraverso la stampa, le rovine acquistano poi una centralità, per il gusto diffuso e per la possibilità di mostrare il proprio talento da parte degli artisti, che arriva fino ai giorni nostri. Questa centralità è riscontrabile in ambiti diversi: la combinazione tra la rappresentazione delle rovine e l’immaginario architettonico, rinvenibile soprattutto nella «vertiginosa facilità di spostamento tra la pagina e lo spazio architettonico» di Piranesi; la rappresentazione delle città (delle loro rovine, Roma in primo luogo) come nutrimento di esperienze di viaggio; la relazione tra rovina ed artefatti compiuti come parallelo tra finito (chiuso) e incompleto (aperto) nella poesia e nella letteratura.

OCCORRE DUNQUE acuire lo sguardo e fare attenzione all’«uso delle rovine». Questo è proprio ciò che fa, ad esempio, il libro di Jean-Yves Jouannais (L’uso delle rovine. Ritratti ossidionali, trad. it. Riccardo Rinaldi, Johan & Levi editore, pp. 112, euro 16). Nel passare in rassegna l’ossessione per le molteplici forme di assedio avvenute nella storia e le rovine che esse hanno prodotto in luoghi tra loro lontani nello spazio e nel tempo (Berlino, Ebla, Halberstadt, Luoyping, Amburgo, Timbuctù, Isola di Pampus, Rennes, Dura Europos o Stalingrado), Jouannais si sofferma sulla Ruinwerttheorie (Teoria del valore delle rovine) elaborata nel XIX secolo da Gottfried Semper e ripresa da Albert Speer. La concezione dell’architetto del nazismo, convintamente approvata dallo stesso Hitler, immaginava che i monumentali edifici del regime fossero programmaticamente concepiti come maestose (e propagandistiche) vestigia della grandezza del Reich.

UNA POLITICA (ESTETICA) delle rovine, pertanto, deve muovere in direzione opposta. Essa incorpora l’inevitabile vulnerabilità e obsolescenza (degli artefatti) dell’homo faber, ma non allo scopo di negarle attraverso la propria imposizione ai posteri. Piuttosto, si tratta di incardinare nella consapevolezza del limite il valore della cura, della quotidiana manutenzione e della riproduzione, sociale e del vivente in generale. «La natura – conclude il proprio volume Susan Stewart – non costituisce più lo scenario della creazione umana; piuttosto, il mondo degli uomini è diventato lo scenario nel quale si manifestano i fenomeni della natura».

In questo contesto, la storia delle rovine può consentirci di fare attenzione a «qualcosa di effimero (…) che può guidarci verso la vita (…), il filo d’erba che si apre un varco nella pietra».