Il dolore, innanzitutto. Come tutte le favole che si rispettino, la storia di Giorgio inizia con una tragedia: la perdita della sua anima gemella, Sergio Galeotti. Morto per le complicazioni del virus dell’Hiv, in un momento in cui ammalarsi di Aids equivaleva a un’onta, Galeotti aleggerà per sempre nella carriera di Armani come un fantasma buono, una presenza che porta rimpianto e insieme voglia di vincere.

Il lavoro, poi. Figlio di gente umile, cresciuto in provincia di Piacenza nelle ristrettezze del Dopoguerra, arriva a Milano coltivando un’etica del lavoro che durerà fino agli ultimi giorni di vita, quando dal letto nel capoluogo lombardo controlla modelli, cuciture e completi della sfilata di alta moda a Parigi con quell’ostinazione febbrile che ha caratterizzato tante scenate e infiniti rimproveri.

Qualcuno ha scritto che oggi il successo di Armani non sarebbe possibile: troppa precarietà, gruppi del lusso fagocitanti, contesto economico avverso ai giovani. Ma i paragoni servono solo a chi li fa, e la  nostalgia dei tempi che furono, come la recriminazione di privilegi che non esistono più, fanno solo confusione. Giorgio nacque in un’epoca di grandi possibilità, è vero, ma è l’unico di un’intera generazione a essere stato così potente, così ricco e così indipendente fino alla fine. Grazie innanzitutto al suo genio e a una spietata etica del lavoro, un’attitudine che oggi forse si giudicherebbe tossica, ma che in realtà permise a lui e alla sua squadra di raggiungere il traguardo di un sogno che non era nemmeno lecito sognare. Ce ne parla Gabriella Forte, una delle sue prime collaboratrici, professionista che meriterebbe una storia a parte.

Da sinistra, Andrea Camerana, Giorgio Armani e Leo Dell’Orco

L’ultima uscita alla sfilata uomo primavera-estate 2025 durante la settimana della moda milanese

Vittorio Zunino Celotto/Getty Images

La conservazione delle cose, soprattutto. Emerso come un innovatore radicale, un folle che ha avuto l’ardire di togliere la spina dorsale degli abiti, ovvero spalline, cuciture, imbottiture e fodere, divenne al contrario l’imperverso conservatore del proprio stile. Conservatore fu anche rispetto alla propria omosessualità, sempre taciuta, sussurrata qualche volta negli ultimi anni e mai esposta in passerella, dove c’era posto solo per un tipo di coppia: quella composta da un lui e da una lei. Ma sarebbe ingiusto chiamarlo reazionario: al contrario, sorprendeva sempre con intuizioni progressiste capaci però di non rimanere in un circolo dorato ma di arrivare a tutti, proprio a tutti. Qualcuno, a sinistra, dovrebbe imparare molto da lui.