di
Gaia Piccardi

C’è un aneddoto che più di tutto racconta la rivalità dello spagnolo con Jannik: «Ho passato le due settimane prima di Cincinnati ad allenare solo i dettagli che pensavo mi sarebbero stati necessari»

DALLA NOSTRA INVIATA
NEW YORK – Sembrerà incredibile ma la mattina dopo il sole è sorto su Manhattan, Donald Trump è decollato verso nuove scelleratezze, i campioni dell’Us Open Carlos Alcaraz e Aryna Sabalenka si sono trascinati con le occhiaie per i soliti morning show e Jannik Sinner ha fatto colazione con Laila nella suite del Baccarat Hotel, meditando vendetta.

Cade la specificità delle superfici

Stiamo sereni: non è successo nulla. A Parigi ha vinto Carlos, a Londra Jannik, a New York di nuovo Carlos e via dicendo, avanti così dall’anno scorso, perché questa è una filastrocca destinata a durare nel tempo e ad annullare — e questa è una cesura netta con l’epoca dei Big Three — le specificità delle quattro superfici. Con dieci titoli Slam in due (sei Alcaraz, il più giovane di sempre ad annettersene così tanti a 22 anni, 4 mesi e due giorni; quattro Sinner), con la duttilità di talenti generazionali che trascendono le antiche convenzioni, terra, erba o cemento (australiano/americano) sono semplicemente playground dove ambientare il loro tennis universale. Credevamo che Carlitos fosse padrone del rosso, poi Jannik è arrivato tre volte a un punto dal match; pensavamo che domenica il tetto chiuso potesse dare un vantaggio incolmabile a Sinner — veloce indoor, il suo habitat —, invece Alcaraz l’ha portato in giro per il campo. 



















































Cambiare anche al costo di perdere di più 

Nella sera della sconfitta l’analisi dell’azzurro, che è apparso quasi sollevato dal peso del numero uno del mondo gestito alla grande per 65 settimane consecutive e tornato in Spagna in una coerente alternanza anche di ranking, è stata lucida: «Sono stato troppo prevedibile: lui ha cambiato il gioco, io no. Ma ho variato poco tutto il torneo. Pochi drop shot, poco serve and volley… E mi sono fatto trovare impreparato in finale». Ma non solo: «Il servizio non era al top, è tutto il torneo che ci litigo. In risposta ho fatto poco, soprattutto sulla sua seconda palla. La semifinale con Aliassime mi ha testato, anche emotivamente, ma non abbastanza». Ha sorriso: «Sono un solido fondocampista, so di essere un buon tennista. Però voglio diventare migliore, a costo di subire qualche sconfitta in più. Mi allenerò in modo diverso». Ha addirittura scherzato: «Cambierò un paio di dettagli del servizio: certo non diventerò mancino… Né sarò mai Carlos. Sarò sempre me stesso ma voglio spingermi in aree nuove, fuori dalla comfort zone. Così quando tornerò nella mia, mi sentirò più forte».

«Non sono una macchina, posso sbagliare anche io»

Non ha mai nominato il rovescio in back, Jannik. Non ne ha giocato uno in sette partite. Sparito il back, evaporato il servizio, benché sempre prezioso per toglierlo dai guai, a New York le acciaierie Sinner hanno prodotto un robustissimo tennis dritto per dritto, sufficiente per stravincere il campionato degli altri, inefficace contro il più bravo. C’è anche un avversario, infatti. Che ha battuto e risposto come un drago (10 palle break affrontate nel torneo, un record, 3 concesse in 22 set: a Darderi, Djokovic e Sinner), tenendolo sotto pressione. «Se servi meno del 50% di prime con Carlos, parti in svantaggio. Non sono una macchina, posso sbagliare anch’io. Non era la mia giornata, va accettato. Andiamo avanti».

Il calendario, da dove ripartiranno Sinner e Alcaraz

Avanti, nell’immediato, significa tournée in Asia: Pechino mentre lo spagnolo giocherà a Tokyo e poi il Master 1000 di Shanghai, dove si ritroveranno teste di serie n.1 e 2, invertiti. Cambia la classifica, non la mentalità con cui i due predestinati vedono il futuro. Alzare di continuo l’asticella è il segreto della loro crescita esponenziale. Se Jannik, dopo aver spazzato via qualsiasi alibi («Fisicamente stavo bene»), ha propositi bellicosi, Carlitos non resterà a guardare. «Riprendermi la vetta del ranking era uno degli obiettivi stagionali — ha spiegato con l’empatia che lo rende il giocatore più benvoluto del circuito, anche tra i colleghi —, la seconda volta a New York, è ancora più bella». 

L’ossessione di Alcaraz

Poi l’aneddoto che racconta più di ogni altro come la rivalità più appassionante del tennis possa rasentare l’ossessione: «Dopo la finale di Wimbledon, mi sono preso un periodo per me stesso nel quale non ho toccato la racchetta. Ma continuavo a chiedermi: come posso migliorare? Come batterò Jannik la prossima volta? Così ho passato le due settimane prima di Cincinnati ad allenare solo i dettagli che pensavo mi sarebbero stati necessari». Quali, abbiamo chiesto a Juan Carlos Ferrero, il bravo coach che debuttava nel professionismo esattamente 26 anni prima che l’allievo tornasse re. «Eh, non ve lo posso dire: so che Vagnozzi mi ascolta…» è stata la risposta. Sempre lui aveva svelato che a Parigi, sui tre match point contro, Alcaraz si era voltato verso il box facendo il pugno, come a dire: figuratevi se mi arrendo proprio ora. «Quando gli abbiamo annunciato che la finale dell’Us Open si sarebbe giocata indoor, quindi nelle condizioni che piacciono a Sinner, Carlos ha detto: non cambia nulla, questa partita la vinco io». Sarà anche agiografia, ma santo cielo che spettacolo.

9 settembre 2025 ( modifica il 9 settembre 2025 | 08:14)