L’ex tecnico dell’Udinese ha allenato l’inglese quando era nello staff di Sarri al Chelsea: “Gli è mancata continuità, ma questo è il suo anno. Max era più abatino ma la posizione in campo è la stessa”
Lorenzo Cascini
9 settembre – 07:49 – MILANO
A volte basta veramente poco. Una pacca sulle spalla, un attestato di stima. Piccoli gesti che apparentemente non spostano ma che possono avere invece un impatto importante sulla singola persona. Come quando il sole esce dalle nuvole. Il paesaggio non cambia, ma la luce è diversa e sembra tutto più bello. Per Ruben Loftus-Cheek funziona esattamente così: per far uscire il sereno servono cose semplici, come sentire la fiducia di compagni e allenatore e vivere in un clima in cui si senta a casa. L’inglese ha vissuto la sua miglior stagione al Chelsea, con Sarri, nel 2018-19. E c’erano esattamente queste condizioni. Il racconto di quel Ruben è affidato a Luca Gotti, ex allenatore di Udinese, Spezia e Lecce, che quell’anno era nello staff dell’allenatore toscano in blues. “A volte sembrava bastasse premere un interruttore. Si trasformava. A volte serviva solo… un po’ di fiducia”.
Partiamo proprio da qui. Da quel Loftus-Cheek protagonista con 10 gol e 6 assist tra campionato e coppe. Che ricordi ha?
“Ruben è un ragazzo particolare. Ma unico nel suo genere. Aveva colpi e giocate da fenomeno vero, ma diciamo che dipendeva da come girava il sole… E da quanto si sentiva forte lui in primis. Però, mi creda, ha caratteristiche che non ho mai più trovato in nessun altro calciatore”.
“Ha un tiro incredibile e tempi di inserimento da top player. È un giocatore molto verticale, moderno. La cosa che più mi ha impressionato è come diventasse dominante quando sentiva la fiducia dello spogliatoio. Si trasformava”.
Aveva anche tanti amici dentro quello spogliatoio…
“Assolutamente. Era un punto in più. Ricordo un Ruben sempre sorridente, che scherzava con tutti. Ogni tanto, in spogliatoio, lo mettevano anche in mezzo. Poi aveva una gentilezza incredibile, oltre che un gran senso del rispetto. Le racconto questa: una volta lo incrocio al centro sportivo due ore dopo l’allenamento e gli chiedo “che ci fai ancora qui?” Era rimasto a due ore a fare foto e firmare autografi con i tifosi. “Ero uno di loro solo qualche anno fa”, mi rispose. Capisce che intendo?”
Tatticamente, invece, come e dove lo vede?
“Credo sia un giocatore che vada lasciato libero di esprimersi. Ha grandi strappi ed è esplosivo, ma bisogna cercare di non ingabbiarlo eccessivamente. Al Chelsea, per esempio, Sarri curava tanto la fase difensiva ma le mezzali, nel suo 4-3-3, avevano abbastanza libertà di buttarsi negli spazi e puntare la porta. E direi che i risultati si sono visti eccome…”
Da lì in poi, però, non abbiamo più rivisto quel Loftus. Se non a sprazzi. Come se lo spiega?
“Si riconduce un po’ tutto al discorso di prima, secondo me. Stiamo parlando di un ragazzo sensibile, quasi inconsapevole di quanta qualità abbia. Ci vuole pazienza, fiducia, a volte tatto. E poi non si possono non considerare gli infortuni. Gli è sempre mancata quella continuità che gli avrebbe consentito di fare il salto”.
Con Allegri come lo vede?
“Conosco Max da tanti anni, ci lega un bel rapporto. La prima cosa che ho pensato è che Allegri, da calciatore, faceva proprio quel ruolo lì. Quindi sa come si tratta un giocatore del genere. E poi anche come tipo… pure Max era uno che non voleva essere ingabbiato dalla tattica. Un ‘abatino’, mi viene da dire. Ruben è diverso, certo, ha molta più forza e potenza però lo vedo bene nel centrocampo del Milan. E a Lecce abbiamo avuto solo il primo assaggio…”
Che Loftus-Cheek dobbiamo aspettarci quindi?
“Penso che possa essere il suo anno. Il Milan è in crescita e Ruben con la squadra. Si è anche ripreso la nazionale dopo un bel precampionato. È partito bene, se stavolta la continuità lo assiste… vedrete il vero Loftus-Cheek. All’ambiente rossonero dico solo di dargli fiducia e coccolarlo, lui ricambierà con prestazioni super”.
Ha qualcosa da rimproverargli?
“Sì, il fatto di non essere cresciuto sotto alcuni aspetti. Io le parlo di un Ruben ragazzo, sono passati 6 anni, e lo vedo ancora un po’ indietro in qualcosa. Penso alla concentrazione durante i 90 minuti, la continuità e il poter diventare sempre più concreto. Deve imparare a tenere la luce accesa il più possibile nell’arco della partita. Anche perché poi, quando brilla è un piacere per gli occhi”.
Prima di salutarla, un’ultima curiosità. In quel Chelsea lì c’era Fabregas, che oggi sta ben figurando sulla panchina del Como. Se lo aspettava?
“So che si dice spesso, ma Cesc era già allenatore quando giocava. Davvero. Ma non solo per il ruolo, lui era proprio ossessionato. Guardava tutto, chiedeva, si informava. Spesso negli spostamenti o a tavola sedeva accanto a me e mi riempiva di domande. ‘Perché abbiamo difeso così in questa situazione?’ ‘Come pensa Sarri di affrontare il Crystal Palace che si difende così?’. E cercava anche di portare soluzioni, darsi delle risposte. Poi ascoltava, si annotava le risposte, studiava. Non è solo una questione di essere predestinati o preparati è proprio una questione di abnegazione e passione”.
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