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ieci anni fa, in un’estate catanese, mentre ero seduta sul lato passeggero di un’auto diretta al mare, ho iniziato improvvisamente a sentirmi poco bene. Il cuore accelerava, le mani sudavano e il respiro si faceva corto. Pensavo: sto morendo. Dicevo: “Ragazzi, qualcosa non va”. Poco dopo, sdraiata sul lettino di un pronto soccorso, un medico mi visitava con scrupolo, senza riscontrare nulla di anomalo. Dopo essersi accertato che non fossi sotto effetto di droghe o sostanze psicoattive, con tono rassicurante concluse: «È ansia. Lexotan, e stia tranquilla».
A fotografare quel momento rimane il referto che conservo ancora, dalla freddezza quasi beffarda: “Paziente sveglia, orientata, collaborante. Riferita tachicardia: non riscontrata. Riferita sudorazione: non riscontrata. Riferita dispnea: non riscontrata. Parametri vitali nella norma”.
Qualche mese più tardi, grazie alla psicoterapia, ho potuto identificare quell’episodio come un attacco di panico. La definizione mi tranquillizzava: ero un caso clinico, e in quanto tale potevo collocare la mia esperienza in un contesto riconosciuto, in una cornice di comprensione comune.
La diagnosi, tra sollievo e stigma
Si dice spesso che dare un nome a ciò che ci accade sia di conforto, e alcune ricerche sembrano confermarlo: etichettare un’emozione può ridurne l’impatto emotivo e renderla più comprensibile. Uno studio della UCLA (University of California, Los Angeles), per esempio, ha mostrato che nominare la paura ne attenua l’intensità, perché attiva le aree cerebrali coinvolte nel controllo a scapito di quelle legate alla reazione emotiva. Lo stesso accade con le diagnosi. Per quanto spiazzanti, possono offrire un sollievo iniziale: “almeno so cosa mi sta succedendo”.
Con la psiche, però, le cose si complicano. Una diagnosi può rassicurare, ma può portare con sé anche il peso dello stigma. Ancora oggi, in molte comunità e in diverse generazioni, l’idea di soffrire di un disturbo mentale è associato a una fragilità da nascondere. Una revisione pubblicata su BMC Geriatrics sottolinea come, tra gli over 65, lo stigma legato ai disturbi mentali sia uno dei principali ostacoli alla richiesta di aiuto.
Una diagnosi può rassicurare, ma può portare con sé anche il peso dello stigma. Ancora oggi, in molte comunità e in diverse generazioni, l’idea di soffrire di un disturbo mentale è associato a una fragilità da nascondere.
Il genere incide allo stesso modo. Una meta-analisi pubblicata nel 2025 sull’American Journal of Men’s Health evidenzia che gli uomini più aderenti ai modelli di mascolinità tradizionale tendono a percepire la sofferenza psicologica come una minaccia alla propria identità. In questi casi, le emozioni devono essere trattenute e la diagnosi equivale a un’ammissione di debolezza.
La tensione tra il sollievo di una diagnosi e il peso dello stigma si riflette con chiarezza in serie TV di culto, dove età e genere giocano un ruolo cruciale. In BoJack Horseman, Hollyhock, giovane figlia adolescente del protagonista, viene colta da un attacco di panico durante una festa. A riportarla su un piano di lucidità è Peter, un ragazzo allora sconosciuto, che si avvicina e le chiede di nominare cinque cose che la circondano. Poi, confessa: “È un trucco del mio psichiatra. Soffro d’ansia anch’io”. Hollyhock non si sottrae, accoglie il gesto di solidarietà e ne trae beneficio. Tutt’altra reazione, invece, si osserva in I Soprano, dove Tony, boss mafioso e incarnazione della virilità stereotipata, sviene per un attacco di panico, ma rifiuta di riconoscerne la natura psicologica e accetta la terapia con estrema riluttanza. Per lui, meglio un infarto che un crollo della psiche.
Le radici di questa resistenza trovano spazio in un dato storico: la dignità clinica del panico è un’acquisizione recente. Solo nel 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il disturbo di panico entra ufficialmente nella classificazione dei disordini mentali come entità autonoma, distinto dall’ansia generalizzata e dalle fobie. Dietro questa formalizzazione c’è il lavoro di più di un decennio di psichiatri e ricercatori, ma il nome più associato a questa svolta è quello di Donald F. Klein. A metà degli anni Sessanta, Klein osserva che alcuni pazienti ricoverati per crisi di ansia acuta, priva di un apparente innesco, migliorano rapidamente con l’imipramina, un antidepressivo fino ad allora usato soprattutto per la depressione maggiore. Altri pazienti, con ansia cronica o generalizzata, non mostrano alcun beneficio. Per Klein, è la prova empirica che i picchi parossistici di terrore seguono una traiettoria diversa dalle altre forme di ansia e meritano quindi criteri diagnostici propri.
Una diagnosi lunga secoli
Eppure, la storia del panico, sia come parola che come esperienza umana, precede di millenni la sua formalizzazione diagnostica. Il termine nasce dalla mitologia greca: Pan, divinità dei boschi, appariva bruscamente ai viandanti o agli eserciti, generando un terrore istantaneo, capace di indurre alla fuga. Ippocrate definisce casi di spaventi senza causa apparente, tra cui quello di Nicanore, colto da paura ogni volta che udiva una suonatrice di flauto. Questi episodi venivano allora interpretati attraverso la teoria umorale, secondo cui la melanconia, attribuita a un eccesso di bile nera, fungeva da grande contenitore diagnostico dentro cui ricadevano tanto i sintomi depressivi quanto quelli che oggi associamo all’ansia e al panico.
La dignità clinica del panico è un’acquisizione recente. Solo nel 1980 il disturbo da panico entra ufficialmente nella classificazione dei disordini mentali come entità autonoma, distinto dall’ansia generalizzata e dalle fobie.
Con l’età moderna, questa visione resta dominante anche se il panico viene descritto con dettagli sempre più precisi. Nell’Anatomy of Melancholy (1621), lo studioso inglese Robert Burton ritrae con vividezza molti dei sintomi che oggi associamo agli attacchi. La paura, scrive, fa arrossire o impallidire, tremare, sudare; scatena brividi, palpitazioni e svenimenti. La sua opera, a metà tra medicina, filosofia e credenze popolari, mostra come tali crisi siano comunque ancora inglobate nel vasto spettro della melanconia.
A tentare di superare il paradigma è il medico francese François Boissier Sauvages de la Croix, che nella sua Nosologia Methodica (1763) ordina oltre duemila patologie in classi e sottocategorie. Tra i disturbi mentali, chiamati vesaniae, compare la “panofobia”, definita come un terrore acuto senza causa apparente. Per la prima volta, il linguaggio medico distingue l’ansia persistente dai momenti di paura inattesa, aprendo la strada alla classificazione del panico come disturbo specifico.
Ciononostante, gli attacchi d’ansia repentina continuano a essere letti in chiave organica fino ai primi decenni del Novecento. Le guerre, in particolare, offrono un terreno di osservazione privilegiato: dalla Rivoluzione francese alla guerra di Crimea, dalle lotte coloniali fino ai due conflitti mondiali, medici e ufficiali riportano di soldati affetti da dolori toracici, palpitazioni e sensazioni di morte imminente, attribuendo tali sintomi a condizioni cardiache o funzionali. Le diagnosi oscillano tra “cuore del soldato”, “astenia neurocircolatoria” e “sindrome da sforzo”, trascurando la componente psichica anche in assenza di patologie organiche evidenti.
Nel frattempo, però, Freud ha introdotto il concetto di “nevrosi d’angoscia”, descrivendo episodi di paura improvvisa come l’espressione di una profonda sofferenza emotiva. Questa separazione dalle spiegazioni esclusivamente fisiche permise al panico di approdare nel linguaggio psichiatrico. Il termine riappare anche in letteratura: in Mrs Dalloway, Virginia Woolf usa la parola panic per descrivere le reazioni più acute di Septimus Warren Smith, reduce della Prima guerra mondiale e segnato da crisi estemporanee di terrore, disorientamento e alienazione.
In seguito al lavoro pioneristico di Freud, la svolta clinica avviata da Donald F. Klein negli anni Sessanta e l’ingresso del termine nel DSM-III, il panico è oggi una condizione clinica specifica. L’attuale DSM-5, ultima versione del manuale, descrive gli attacchi di panico come episodi estemporanei di intensa paura, accompagnati da sintomi somatici e cognitivi tra cui palpitazioni, dispnea, sudorazione, tremori e la netta sensazione di perdere il controllo o di morire.
Interpretazioni catastrofiche e predisposizioni genetiche
A caratterizzare l’attacco di panico e a distinguerlo da patologie prettamente organiche è soprattutto l’interpretazione dei suoi sintomi. Secondo la teoria cognitiva formulata da David M. Clark nel 1986, e ancora oggi considerata un modello di riferimento, l’attacco si innesca quando segnali corporei del tutto innocui vengono percepiti come gravi minacce. Così, un battito cardiaco accelerato diventa il presagio di un infarto, un capogiro il primo sintomo di un collasso repentino. Questo meccanismo, noto come “interpretazione catastrofica”, si configura come componente essenziale del disturbo di panico, la forma clinica in cui attacchi ricorrenti si associano a un’ansia cronica di subirne altri.
Secondo la teoria cognitiva, l’attacco di panico si innesca quando segnali corporei del tutto innocui vengono percepiti come gravi minacce: chi ne soffre tende a concentrarsi in modo eccessivo sul proprio corpo, e a leggere ogni variazione come un segnale d’allarme.
Dopo il primo episodio, anch’io iniziai a concentrarmi in modo eccessivo sul mio corpo, sospettando di ogni segnale. Mi misuravo i battiti durante gli aperitivi, controllavo il respiro nei luoghi affollati, individuavo istintivamente le uscite di sicurezza. Ogni variazione ‒ una fitta, un brivido, un giramento di testa ‒ diventava un possibile allarme. È comprensibile, se si considera che la caratteristica più spiazzante del panico è proprio la sua imprevedibilità. Arriva all’improvviso e scompare altrettanto rapidamente. Questo lo rende, per chi lo sperimenta, una minaccia capillare che alimenta un’ansia anticipatoria: la paura della paura. David Foster Wallace, che conosceva bene questi territori, scrive in Infinite Jest (1996) che «il 99% dell’attività del pensiero consiste nel tentare di terrorizzarsi a morte». Una definizione precisa del meccanismo che costruisce il disastro prima ancora che qualcosa accada.
Il secondo attacco arrivò qualche settimana dopo, su un vagone della metropolitana. Pensai di stare per svenire, poi per impazzire. Da allora iniziai a evitare tutto ciò che potesse espormi a quella sensazione: la metro e altri mezzi pubblici, le folle, gli spazi chiusi, e infine anche l’aereo: “E se mi succede lì, come ne esco?”. Mettevo in atto quello che in psicologia si chiama evitamento, uno di quei comportamenti che, pur sembrando protettivi, finiscono per rafforzare il circolo vizioso dell’ansia. Si restringe lo spazio d’azione per sentirsi al sicuro, ma così facendo si alimenta la paura.
Dietro gli attacchi di panico, però, non ci sono solo meccanismi cognitivi. Studi recenti raccontano come a questi si intreccino fenomeni biologici ‒ dalla regolazione respiratoria ai neurotrasmettitori come serotonina e GABA (Gamma-AminoButyric Acid) ‒ e predisposizioni genetiche. A soffrire di panico è una grossa fetta di popolazione. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2019 i disturbi d’ansia riguardavano circa il 4% degli individui a livello globale, oltre 300 milioni di persone. Dentro questo insieme, il disturbo di panico interessa l’1-2% della popolazione, mentre gli attacchi di panico, anche isolati, toccano oltre una persona su otto nel corso della vita. In generale, le donne ne soffrono con una frequenza doppia rispetto agli uomini, e l’esordio coincide spesso con la giovinezza.
Accanto alle questioni genetiche e ai traumi personali, a spiegare la crescita dei disturbi legati all’ansia e al panico è sempre più spesso il contesto sociale in cui si vive.
Il quadro è in crescita. Tra il 1990 e il 2019, i casi globali di disordini ansiosi sono aumentati di oltre il 55%. Il mio rientra perfettamente nella media statistica: nei Paesi ad alto reddito la prevalenza è maggiore e raggiunge il picco tra i 30 e i 35 anni.
Stress di sistema
Accanto alle questioni genetiche e ai traumi personali, a spiegare la crescita dei disturbi legati all’ansia e al panico è sempre più spesso il contesto sociale in cui si vive. Stressori collettivi come incertezza climatica, pressioni lavorative e iperconnessione digitale sono capaci di alimentare una forma di ansia latente, come un sottofondo di allerta costante. Il panico, di conseguenza, può emergere come la risposta amplificata di un corpo che, sottoposto a sollecitazioni sistemiche continue, vede superata la propria capacità di adattamento.
Primo tra questi fattori, il cambiamento climatico. Una recente revisione sistematica pubblicata su Frontiers in Psychiatry rivela che ondate di calore, disastri naturali e inquinamento sono associati ad ansia acuta e panico, soprattutto nelle popolazioni più predisposte. Il clima ha agito anche a livello percettivo, sensibilizzandoci a leggere ogni variazione atmosferica come una possibile minaccia: un caldo inatteso evoca l’ultima ondata letale, una pioggia abbondante ricorda le alluvioni. Termini come ecoansia e solastalgia nascono per raccontare la difficoltà emotiva che deriva dalla percezione di un futuro in pericolo.
Il clima ha agito anche a livello percettivo, sensibilizzandoci a leggere ogni variazione atmosferica come una possibile minaccia: un caldo inatteso evoca l’ultima ondata letale, una pioggia abbondante ricorda le alluvioni.
Anche le modalità con cui lavoriamo contribuiscono a mantenere alto il livello di allerta. Il modello produttivo attuale, caratterizzato da flessibilità estrema e da una spinta continua alla performance, ci espone a livelli di stress sempre maggiori che possono sfociare in attacchi di panico. Chi subisce uno squilibrio marcato tra sforzo lavorativo e ricompensa ha un rischio quasi triplicato di soffrirne. Non a caso, “Non salviamo vite umane” è il mantra semiserio di chi è abituato a lavorare sotto pressione. Una forma di autoironia che però tradisce quanto siamo abituati a vivere in stato d’allerta permanente. Ed è proprio nella persistenza dell’incertezza – sul futuro, sul lavoro, sul pianeta – che si genera il terreno ideale per un’ansia diffusa e intermittente, capace di sfociare in attacchi improvvisi.
Se, quindi, gli attacchi di panico hanno radici biologiche e psicologiche individuali, la loro diffusione e intensità possono plasmarsi profondamente anche attraverso fattori collettivi. Le fragilità private si intrecciano con quelle di sistema, trasformando l’ansia in un fenomeno di massa. Leggere il panico in questa chiave significa riconoscerlo come un indicatore sociale e la sua cura non può limitarsi alla terapia individuale, ma deve includere anche risposte comunitarie e politiche capaci di agire sulle situazioni che alimentano la paura.
Una questione collettiva
In futuro, i disordini legati all’ansia diventeranno peraltro sempre più pervasivi. Secondo The Lancet, entro il 2050 il picco di esordio si sposterà nella fascia tra i 15 e i 19 anni, delineando un fenomeno generazionale sempre più precoce. Di fronte a questa prospettiva, la Commissione internazionale sulla salute mentale giovanile dello stesso Lancet ha lanciato un allarme a partire da una domanda: perché si assiste a un miglioramento della salute fisica e a un peggioramento di quella mentale tra i più giovani? La risposta, secondo ricercatori, clinici e attivisti, è sistemica e richiede un cambiamento prospettico: non considerare più i giovani come soggetti fragili, ma come i sensori più recettivi di un sistema in difficoltà. Da qui l’invito ad agire, attraverso il potenziamento della prevenzione, la rimozione delle barriere all’accesso, gli investimenti in politiche pubbliche che riducano l’impatto degli stress ambientali, economici, culturali.
Se gli attacchi di panico hanno radici biologiche e psicologiche individuali, la loro diffusione e intensità possono plasmarsi profondamente anche in seguito a fattori collettivi.
Molti studiosi affermano che accanto alle sollecitazioni ambientali, a determinare l’instabilità emotiva delle nuove generazioni sia la progressiva erosione relazionale e della coesione sociale determinate dall’individualismo. Vent’anni fa, la psicologa americana Jean Twenge aveva già dimostrato, attraverso una vasta meta-analisi, che l’ansia nei giovani americani era in crescita da decenni, in parallelo con la diminuzione delle connessioni sociali e l’aumento delle minacce ambientali percepite. Secondo Twenge, l’ambiente socioculturale spiega una parte significativa della vulnerabilità psicologica personale: i contesti in cui vigono legami deboli ed esposti a maggiori minacce producono più ansia di quelli caratterizzati da relazioni stabili e capaci di favorire un senso di appartenenza.
Quando ho avuto il primo attacco avevo ventisei anni e vivevo in una città nuova con l’ansia del futuro addosso. Il mio panico non parlava solo di me, parlava del mio tempo: della solitudine, della precarietà, dell’esigenza di essere all’altezza di aspettative schiaccianti. A poco a poco ho imparato a riconoscere i segnali e a gestire l’ansia anticipatoria. Oggi, non frequento più i pronto soccorso, mi sposto lungo i corridoi laterali dei concerti, cerco il finestrino in aereo. Ma soprattutto, mi consolo pensando che i miei gesti siano parte di una grammatica comune, quella di chi si muove nell’incertezza cronica di uno contesto che promette sempre meno.
Bisognerebbe, quindi, partire da quell’io che prova a farsi aria su un tram affollato per arrivare a un noi che chiede condizioni di vita meno ansiogene: lavori sostenibili, città che offrano tregua anche sotto stress, e soprattutto: politiche che trattino la salute mentale come una responsabilità pubblica. Così che non si tratti solo di prendere fiato, ma di costruire un mondo che permetta a tutte e tutti di respirare.