In Predatori, il nuovo libro di Stefano Nazzi, giornalista da tanti anni e autore del podcast del Post Indagini, si alternano le storie dei serial killer statunitensi più famosi – Ted Bundy, John Wayne Gacy, Edmund Kemper, e molti altri e altre, come Aileen Wuornos – a quelle di chi cominciò a analizzarne i comportamenti, i moventi e a riconoscere che c’erano dei modelli psicologici che accomunavano quegli assassini.

Tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta l’agenzia federale ne catalogò centinaia (settecentosessantotto solo negli Ottanta), tanto che definì quei decenni un periodo di «epidemia». Nel terzo capitolo di Predatori, Nazzi racconta dell’assassino su cui Patrick Mullany e Howard Teten, pionieri della profilazione dei serial killer dell’FBI, elaborarono il primo vero profilo criminale, nel 1974: David Meirhofer.

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«Pensate come loro, entrate nelle loro menti.» John Douglas iniziava sempre così le sue lezioni. Aveva davanti giovani agenti dell’FBI, quelli che volevano diventare profiler, che volevano dare la caccia ai serial killer. «Immaginate la savana» proseguiva Douglas, «e ora pensate a un leone, fissatelo nella mente. Guardatelo mentre osserva un gruppo di zebre, o di antilopi. Le prede sembrano tutte uguali, fanno le stesse cose, si muovono nello stesso modo, bevono, mangiano mosse dai medesimi impulsi. Eppure il leone ne sceglie una. Percepisce qual è la più debole, la più fragile. Lo sente.»

I giovani agenti sono concentrati, come se ognuno di loro fosse in quell’aula da solo, isolato. Come se fosse in una seduta di ipnosi.

«E ora immaginatevi in un bar, per strada, in un centro commerciale. Vedete decine, centinaia di persone. Eppure ne individuate una, una sola. È la preda. E poi iniziate a programmare, a prevedere, a studiare. A immaginare il finale.»

Non importa, diceva Douglas, se la preda è una donna, un uomo, un bambino. È la preda, e voi pensate solo a come prenderla e portarla via, lontano dagli altri. Come colpirla.

«I serial killer sono come il leone in quella savana. Provano la stessa eccitazione quando individuano la preda, la stessa determinazione del leone. Ma non sono tutti uguali. Hanno personalità diverse. E i loro comportamenti rispecchiano la loro personalità. È sulla scena del crimine che possiamo individuare gli elementi del loro carattere e quindi prevedere come agiranno. Noi seguiamo le tracce della loro personalità per entrare nelle loro menti, per catturarle. Per camminare al loro passo, e poi un passo avanti a loro. Se volete capire l’artista, guardate l’opera.»

Douglas spiegava che individuare un serial killer è difficile, faticoso, a volte sembra impossibile. I criminali normalmente hanno un movente, e spesso il movente conduce a loro. Gli assassini seriali no, non hanno un movente individuabile. Il movente è nella loro mente, nella loro personalità, nelle loro ossessioni. Per questo bisogna capirli, imparare a pensare come loro, ben sapendo che sono intelligenti, scaltri, preparati. Ma anche che si sentono sicuri, si reputano più intelligenti degli altri, superiori a chi gli dà la caccia. Si sentono invincibili. E per questo commettono errori. Ted Bundy fu arrestato per un banale controllo su un’auto che aveva rubato.

John Douglas è stato il più famoso profiler dell’FBI. Insieme a Robert Ressler ha intervistato, negli anni Settanta, decine di serial killer negli Stati Uniti per tracciarne i profili psicologici, per trovare aspetti comuni nel loro agire. Lo scopo di Douglas e Ressler era individuare linee guida che potessero aiutare la ricerca e la cattura di assassini seriali. Per loro divenne quasi un’ossessione, una missione. Appartenevano alla BSU, il gruppo leggendario fondato nel 1972 come possibile antidoto alla proliferazione dei serial killer negli anni dell’epidemia.

Non furono gli esperti della BSU a inventare la profilazione criminale. Altri studiosi in passato l’avevano fatto. Ci aveva provato già nel 1888 Thomas Bond, un medico assunto da Scotland Yard, a Londra, perché individuasse l’identikit psicologico di Jack lo Squartatore. Poi ci furono altri medici. Ma furono gli agenti della BSU ad affinare i metodi, a tracciare schemi, a sistematizzare l’attività di profiling. A fondare l’unità furono Patrick Mullany e Howard Teten. Nell’agenzia li chiamavano Frick e Frack. Addestrarono i primi volontari, formarono le nuove generazioni di agenti come Ressler e Douglas. Mullany ripeteva spesso una frase: «La gente uccide come vive».

Furono Teten e Mullany, nel 1974, a tracciare il primo vero profilo di un serial killer a cui la polizia dava la caccia: David Meirhofer, agiva nel Montana.

Tutto era iniziato il 25 giugno 1973, quando da un campeggio vicino a Three Forks era scomparsa una bambina di 7 anni, Susan Jaeger. In quello stesso campeggio cinque anni prima era avvenuto un omicidio: un boy scout dodicenne, Michael Raney, era stato ucciso, colpito con un bastone e poi con un coltello. Era un delitto irrisolto.

Dieci mesi dopo il rapimento della bambina, Teten e Mullany, a cui si aggiunse poi Ressler, tracciarono un profilo psicologico del sequestratore. Era il primo tentativo del genere fatto dall’FBI.

Il «soggetto ignoto» era, per i profiler, un maschio bianco sui vent’anni, celibe e solitario, che viveva nella zona, ben conosciuto e considerato strano, con esperienza militare, recidivo, senza padre o con padre assente, e con una madre dominante. Era un individuo asociale, con una storia ridotta di relazioni eterosessuali. Aveva, secondo il profilo, un incarico lavorativo solitario. Scrissero i profiler dell’FBI: «Probabilmente ha conservato parti del corpo della sua vittima, o delle sue vittime, in quanto è possibile che abbia ucciso altre volte». La relazione ipotizzava anche che se si fosse sentito in pericolo, il soggetto avrebbe tentato il suicidio. A quel profilo psicologico, l’FBI assegnò il nome di Unsub zero, «soggetto ignoto zero».

Gli agenti incaricati del caso ricevettero una soffiata. Una telefonata anonima indicava come possibile autore del rapimento di Susan Jaeger e dell’omicidio di Michael Raney un ventiquattrenne che viveva nella zona, David Meirhofer. Corrispondeva al profilo: era single, lavorava da solo come falegname, era stato cresciuto da sua madre, era stato espulso dai boy scout quando aveva tentato di accoltellare un ragazzo. I vicini lo consideravano un po’ strano. Era veterano della guerra del Vietnam, arruolato nei marines.

Venne interrogato più volte, superò con successo anche il test del poligrafo, la macchina della verità. Qualcosa però convinse gli agenti dell’FBI di essere sulla giusta pista investigativa. Nel febbraio del 1974 era scomparsa, nella stessa zona del Montana, una diciannovenne, Sandra Mae Dykman Smallegan. La sua auto era stata ritrovata in un ranch abbandonato al cui interno, in un armadio chiuso con dei lunghi chiodi, erano stati rinvenuti i resti carbonizzati della ragazza. Mentre la polizia stava perquisendo il ranch, un ragazzo si era avvicinato e aveva chiesto a un agente se avessero trovato qualcosa. L’agente conosceva quel ragazzo: era Meirhofer.

Erano sospetti, non c’erano certo elementi concreti per arrestarlo. Però i profiler diedero un suggerimento agli agenti operativi e alla polizia del Montana. Mullany disse che Unsub zero aveva una sorta di connessione con il delitto che aveva commesso. Era probabile, secondo lui, che il giorno dell’anniversario della scomparsa di Susan Jaeger, si facesse vivo con la famiglia.

L’FBI mise sotto controllo il telefono di casa Jaeger. Il 25 giugno 1974, primo anniversario della scomparsa della bambina, un uomo telefonò. Rispose Marietta, la madre di Susan. La telefonata durò un’ora. L’uomo, piangendo, disse che Susan era viva. Singhiozzava: «Ho sempre voluto una bambina. Ho sempre voluto una bambina tutta mia». «Le ha fatto del male?» chiese la madre. «No, solo la prima notte ho dovuto strozzarla un po’.»

Fu una telefonata terribile per la madre di Susan ma alla fine a piangere disperato era l’uomo. Disse: «Metta giù lei il telefono, io non ce la faccio».

Nonostante la conversazione fosse durata un’ora, i tecnici dell’FBI non riuscirono a risalire al luogo da dove era arrivata la chiamata.

Un mese dopo, un allevatore della zona trovò nella bolletta telefonica l’importo per una telefonata interurbana che non aveva fatto. Riconobbe il cognome del destinatario: Jaeger, aveva letto quel nome sui giornali. Avvertì l’FBI. Gli agenti seguirono i fili della linea e sotto un palo telefonico non distante dalla proprietà dell’allevatore trovarono le tracce di un veicolo.

David Meirhofer era stato addestrato nei marines come tecnico telefonico.

Era un altro elemento, ma non bastava. Venne organizzato un incontro tra la madre di Susan e il sospettato, nello studio del suo avvocato. L’uomo era tranquillo, disse che gli dispiaceva moltissimo per la scomparsa della bambina, che se avesse potuto essere utile lo avrebbe fatto ma che non sapeva nulla. Ricordò Marietta Jaeger: «Prima che se ne andasse gli ho stretto la mano e l’ho guardato negli occhi ma lui ha distolto lo sguardo. Una delle cose più difficili che ho fatto in vita mia è stata lasciar andare quella mano. Era il mio unico legame con Susan e volevo disperatamente trovarla».

Il giorno dopo, Marietta Jaeger ricevette una telefonata. La voce sembrava quella di Meirhofer, ma non poteva esserne certa. Era comunque la stessa persona della prima telefonata. L’uomo disse: «Stai parlando con l’FBI, non rivedrai mai più tua figlia». Poi fece sentire la voce di una bambina che diceva: «È un brav’uomo, mamma, ora sono seduta sulle sue ginocchia». Quella voce era registrata.

Marietta disse solo una cosa: «David, dimmi dov’è mia figlia». Lo chiamò per nome. L’uomo urlò: «Non la rivedrai più» e attaccò violentemente il telefono.

Questa volta i tecnici dell’FBI riuscirono a rintracciare il luogo da cui era partita la telefonata. Era un hotel di Salt Lake City, nello Utah, a quasi 500 chilometri di distanza dalla zona del Montana dove era scomparsa la bambina.

Gli agenti andarono a casa di Meirhofer e lo aspettarono: quando arrivò, lo perquisirono. In tasca aveva una ricevuta dell’hotel di Salt Lake City. Nel congelatore di casa gli agenti trovarono della carne con un’etichetta: «Deer burger smds». «Deer burger», cioè hamburger di cervo. «smds» erano le iniziali complete di Sandra Mae Dykman Smallegan.

Qualche settimana prima, Meirhofer aveva partecipato a un picnic della chiesa. Aveva portato della carne da cuocere sul barbecue. Confessò quattro omicidi, tra cui quello di Susan Jaeger.

Meirhofer si uccise in carcere due mesi dopo aver confessato.

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