Attorno ci sono sessanta foto, le sue foto, foto di Gaza in festa, poi Gaza distrutta e volti sfigurati e corpi avvolti nelle lenzuola bianche. Quando risponde alle domande è un fiume in piena, poi se ne accorge e chiede all’interprete: «Ma come fai a ricordarti tutto? Io mi sono già dimenticata»: lo dice in arabo a Valentina Balata, arabista tempiese, che traduce in italiano. Samar Abu Elouf sa bene di non essere solo una dei tanti ospiti del festival “Isole che parlano” dei fratelli Angeli. La sua mostra, inaugurata ieri a Palau e visitabile fino al 12 ottobre, è testimonianza viva. Però Samar ci tiene: «Quella che rappresento è solo una parte della realtà. Il dolore e la devastazione di una guerra vanno oltre qualsiasi immagine. Ma il mio desiderio è che anche solo con questo pezzo di verità il mondo arrivi a capire quell’orrore».

“Gaza when emotions suffocate” si divide in tre sezioni, e in una Gaza è piena di colori. «Piena di vita semplice ma felice. Caffetterie, feste, non c’era nessuno che non andasse a scuola: Gaza è uno dei posti con meno analfabetismo nel mondo arabo», spiega la fotoreporter palestinese. Per lei sono testimonianze ma anche ricordi. Tutto è cambiato dal 7 ottobre 2023, dall’attacco di Hamas a Israele con l’uccisione di oltre mille persone, e da lì il via al genocidio comandato da Netanyahu verso il popolo della striscia di Gaza e che ancora va avanti. La fotografia come testimonianza diretta però incompleta, sostiene Samar Abu Elouf: «Da quando sono andata via riguardo le mie foto – spiega lei, in esilio a Doha ormai da quasi due anni, racconterà la sua storia anche il 14 settembre in un incontro a Sinnai –, e le vedo deboli. Dov’è il dolore? Ho capito che foto e video non rappresentano che l’uno per cento della realtà e dello strazio».

Il suo ritratto di un bambino senza braccia, tenero e crudele, ha vinto il World press photo of the year 2025, «è stato importante per far arrivare l’immagine a più persone possibili, ma non sono riuscita a gioire. Non sapevo neanche come comunicare al protagonista della foto che aveva vinto un premio». È una situazione ossimorica.

«Non sono qui per raccontare un dramma, ma un pezzo di storia», risponde lucidamente la fotografa palestinese, stessa risposta che ha dato quando con l’elmetto in testa e la macchina fotografica in mano si muoveva tra le vie a Gaza city. La fotografia, per lei, è «raccontare momenti di vita, storie. Qualcosa che va oltre l’immagine». E indica la foto di una casa palestinese. Alcune donne attorno a un tavolo. «Preparavano dei dolci, ciò che più mi importava era entrare in relazione con loro. La casa era in ordine e ho pensato a loro che in attesa del mio arrivo si erano preoccupate di sistemare tutto. E poi avevano fatto dei dolci buonissimi, ho chiesto come si facevano, e loro chiedevano a me come si fanno le foto», ride.

Al lato opposto dello spazio del cineteatro Montiggia c’è un ritratto, una ragazza vestita di blu, senza un occhio. È Ruba Abu Jibba, 19 anni, nello stanzone in cui era sfollata con la famiglia c’è stata un’esplosione. I militari poi hanno impedito qualsiasi spostamento per una settimana. Lei è sopravvissuta succhiando ogni giorno un limone, il fratello, ferito, è morto dopo 48 ore di agonia. Lei ha perso la vista e un seno. «Vive la depressione, abbiamo parlato per due ore». Fare foto è un atto politico? «Sicuramente, ma io credo più che sia umano. In tutti i conflitti ciò che deve rimanere sempre al centro è la storia delle persone».