Gerusalemme, ieri, un lunedì di sangue. Un altro. Alla fermata dell’autobus a Ramot un lampo di pochi istanti produce un bilancio angosciante: sei morti, almeno sette feriti gravi, i due assalitori neutralizzati. La città per l’ennesima volta assorbe il colpo e riprende il ritmo perché qui la normalità è una disciplina e si vive con la consapevolezza che l’attacco può spuntare da un angolo qualunque.
L’urto politico
L’urto non si ferma all’asfalto ma è anche politico ed immediato. Ogni tragedia sposta la barra del dibattito: l’ala più dura, con Itamar Ben Gvir in testa, invoca più armi ai cittadini, più posti di blocco, meno vincoli operativi. La paura diventa argomento e la discussione si irrigidisce: la sicurezza non è più un tema diventando un imperativo. Intanto la parte sommersa resta invisibile. Nel 2024 lo Shabak ha disinnescato ben 1.040 attentati rilevanti tra Cisgiordania, Gerusalemme, la fascia costiera, le grandi arterie. È un numero impressionante che vale più di qualsiasi editoriale: cellule smembrate, arsenali svuotati, ordigni sequestrati, esecutori pronti all’azione criminale fermati appena un attimo prima che si compia un’altra tragedia.
La prevenzione è pazienza e mestiere
La prevenzione è pazienza e mestiere: pedinamenti, intercettazioni, infiltrazioni, studio dei movimenti, lettura dei traffici telefonici. L’Anp – anche se non lo vuol far sapere – fornisce indizi e sospetti ai servizi israeliani mentre le flottiglie si godono la loro crociera mediterranea. Eppure, qualche lama passa. Nelle ultime settimane, sparatorie a incroci e checkpoint hanno perforato la rete lasciando scie di sangue. È ciò che vediamo nei notiziari e che crea l’effetto ottico: si guarda soltanto a ciò che esplode ma quasi mai a ciò che non è esploso.
Lo Shabak deve riuscire sempre
La statistica è del resto crudele: se al nemico basta una riuscita, agli apparati di difesa è necessario riuscire sempre. Dentro questa guerra a bassa visibilità la macchina non si ferma. Polizia di frontiera e unità speciali, sorveglianza elettronica, droni, pattuglie nei campi, interrogatori a catena che ricostruiscono logistiche e complicità. L’ecosistema della violenza cambia forma: solitari radicalizzati in rete, cellule che rispondono ai marchi storici dell’odio, finanziatori che muovono contanti e componenti, armi clandestine, coltelli, auto trasformate in arieti. La risposta si aggiorna di continuo: si stringono varchi, si recidono legami, si marcano i nodi prima che diventino operativi.
La manutenzione silenziosa
Questa attività non ha immagini. È fatta di celle telefoniche e tabulati, di ore di ascolto, di varchi controllati, di porte sfondate alle tre di notte in appartamenti qualunque a Nablus o Jenin. Finisce in pagina quando fallisce ma quasi mai quando riesce. Eppure è questa manutenzione silenziosa a reggere la routine: scuole aperte, autobus in corsa, mercati vivi. E’ così che vive Israele, derisa e boicottata da gran parte del mondo cosiddetto civile.
Il quadro non consola
Il quadro non consola perché la violenza non è cessata ma semmai si è professionalizzata. I promotori sperimentano strumenti e simboli e scommettono sul contagio emulativo. Lo Stato risponde con ciò che una democrazia può permettersi, e cioè prevenzione aggressiva dentro la legge, forza mirata, procedure rapide, responsabilità nette. Il rischio zero non esiste mentre esiste il rischio ridotto, giorno dopo giorno, da persone che non vedremo in nessuna conferenza stampa. Ramot lo racconta senza retorica. Bastano minuti e due armi per scavare un cratere nella fiducia collettiva. Ma il bilancio autentico si misura anche nel resto della giornata: nelle operazioni che non fanno notizia, negli attentati che non accadono, nelle famiglie che non sapranno mai di essere passate indenni perché una perquisizione è arrivata in tempo, un’auto è stata fermata a un posto di blocco, un nome è comparso nel database proprio quando serviva.
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