Il beach volley ravennate, ma anche quello internazionale, salutano l’addio ai campi da gioco del 54enne Emanuele Monduzzi, vero monumento vivente alla passione per questo sport. Monduzzi ha chiuso a Varsavia il suo incredibile cammino, durato quasi 40 anni, durante i quali ha toccato le sabbie di 28 nazioni, molte delle quali esotiche, tanto che il soprannome “Mondo” è particolarmente centrato.
La prima scintilla?
“A Marina Romea, nel 1986, quando Squeo portò un evento dell’El Charro Tour. Rimasi affascinato dall’ambiente che inseriva lo sport in una situazione di musica e di festa. Tuttora non credo ci siano esempi di altri sport capaci di fare questo”.
I risultati?
“Quinto a Beirut nel 2001, nono a Pfaffikok, tredicesimo a Pafhos, a Vaduz e a Bandar…”.
Non sembra un percorso trionfale…
“No. Ho fatto questa vita per passione, per i viaggi e le incredibili emozioni che ho provato grazie a questo sport. Una delle mie frasi preferite dice: non si smette di giocare perché si diventa vecchi, ma si diventa vecchi perché si smette di giocare”.
Una passione costosa?
“Sì, ma sono stato bravo a crearmi delle opportunità, a presentarmi meglio agli sponsor, a creare una rete di relazioni che mi ha aiutato”.
E avventurosa?
“Specialmente nei primi anni, quando non c’era il supporto dei telefoni e di internet. Arrivavi in certi Paesi e dovevi improvvisare tutto. Frequentando i tornei più difficili da raggiungere costruivo la mia classifica che mi permetteva di partecipare agli eventi principali”.
Ma sempre con ritorno a casa-base, a Ravenna?
“A Manly Beach, vicino Sydney, mi sono detto che, se proprio dovessi trasferirmi, sarei venuto qui, dove già alle sette del mattino i campi erano tutti occupati. Ma alla fine ogni volta sono tornato a casa volentieri”.
Perché a Ravenna il beach volley non ha sfondato?
“Perché la spiaggia di Ravenna è un quartiere della città appoggiato sul mare. Non c’è lo spirito giusto. Già ai primi di settembre non ci va più nessuno”.
Però abbiamo avuto dei campioni.
“Sì, come Daniela Gattelli, che lasciò la serie A per saltare in un beach volley ancora non così evoluto, ma che l’ha portata a fare due olimpiadi. O Simone Bendandi, che fece due grandi stagioni prima di essere rubato dal volley indoor. Ma io penso che Giorgio Zauli sia stato il nostro miglior giocatore”.
Un limite alla crescita del beach?
“Il poco interesse degli sponsor tecnici. Per giocare bastano maglietta, calzoncini e un pallone. Al massimo un paio di occhiali. C’è poco da vendere”.
Aneddoti?
“Con quelli facciamo notte. A Doha, ad esempio, c’era un time out tecnico di due minuti quando il muezzin chiamava la preghiera. E a proposito: il beach è fenomeno planetario come pochi e nei Paesi arabi è servito a dare alle donne una possibilità di esprimersi, seppur accettando qualche compromesso sul dress-code”
E adesso?
“Continuerò a lavorare nell’impresa di logistica marittima della mia famiglia e a seguire la società sportiva PowerBeach di cui sono fondatore”.
Marco Ortolani