La prima volta che Spike Lee si è addentrato nei delicati meandri del remake è stato per un altro film est-asiatico: Oldboy di Park-Chan Wook. E non è qualcosa di cui fa piacere parlare, se non per irretire il collega Luotto o gli amici del Codacons.
Il nostro uomo guardava alla Corea, quando bastava che trovasse in sé il Giappone.
Le premesse di Highest 2 Lowest sono le stesse di Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa – meglio noto come High and Low. Un gigantesco imprenditore tenta il colpaccio per salvare l’anima e le sorti dell’azienda a cui ha dedicato la vita. Ma quando il figlio del suo autista viene rapito per errore al posto del proprio, e il rapitore esige ancora un enorme riscatto, il pezzo grosso deve affrontare un dilemma: salvare l’impresa o salvare il ragazzo.
Spike Lee ri-immagina (croccantissimo neologismo, grazie reparti marketing) la vicenda nella New York nel 2025, facendo cerchio con le ispirazioni del Maestro Kurosawa: il film procedural americano e il romanzo di Ed McBain. Di fatto, la nuova pellicola diventa più una cover, un’improvvisazione jazzistica sul tema.
David King non è più un mogul del calzaturifici femminili giapponesi, ma un ex Re Mida della musica Black, a capo di un’etichetta discografica, la Stackin’ Hits Records (primo indizio di un’ironia alla Faso che attraversa il film), che vuole disperatamente riprendersi per salvare la propria legacy dagli spauracchi TikTok e IA. Evolve il personaggio dell’autista, il cast è invecchiato (soprattutto i due ragazzi, non più bambini), e spariscono l’assistente serpe-in-seno e la sottotrama dell’eroina. Rimane la sfarzosa casa che domina sulla città: un po’ a simbolo, un po’ a sfregio, un po’ a beneficio del voyeurismo della criminalità locale.
#DefunTthePolice
Spike Lee non è Kurosawa. Highest 2 Lowest non prova a mettersi nemmeno nello stesso campionato dell’originale: non ha la stessa regia immacolata (tranne qualche composizione a triangolo Kurosawiano – Roberto), nè il suo riserbo molto nipponico e piuttosto brutale.
E per fortuna.
Questo è un “Spike Lee joint”.
Non solo – è un Inno alla Joint.
Per questo l’adorazione per New York City e le sue istituzioni, in ogni fibra del film.
Per questo la sfiducia verso la polizia (anche quando di colore), e, per estensione, verso il potere.
Per questa si rinsalda l’alleanza con il fratello Denzel Washington.
Per questo la musica che scorre potente in questo film, ma anche una certa auto-indulgenza.
Per questo il film è così vibrante e intenso, ottimista e zompettante, ma con la gravitas dei capelli grigi.
Il protagonista, David King, è una creatura ibrida con la faccia di Denzel Washington e i dilemmi di Spike Lee. Un “has-been” con i settanta che bussano all’uscio. Un OG ancora venerato che ha attraversato a spallate un decennio di errori di valutazione (Old Boy) e compromessi, che ha un disperato bisogno di ritrovare il groove, riconnettersi alle sue passioni vitali del passato e alle nuove leve del presente.
Nemmeno Denzel ci cammina lontano (le avete lette le sue dichiarazioni recenti sul fatto che non guarda più film?), ma nel frattempo ha amplificato il fattore cazzimma via ummarell di menare e intensissimo swagger del suo Macrino ne Il Gladiatore 2. Questa volta però ha anche lui molta più fame.
Livello di main character energy: le sue Beats si sentono bene.
Già dal titolo, Highest 2 Lowest sfoggia una bonaria sboronaggine. Soprattutto nella prima ora, Spike spiscia grossolanamente nel peggior melodramma soap operistico: sembra aver infallibilmente incorporato tutte le lezioni sbagliate di Almódovar, anche se non così male. Depista così tutto il setup con una serie di spiegometri senza spina dorsale, sulle note di una colonna sonora a volte conciliante e anti-climatica (ancora ossequi si reparti marketing), a volte ingenuamente incalzante nei momenti più tesi della seconda parte.
Guardando alla scrittura, e tralasciando i momenti di ai-tempi-nostrismi – cioè Spike Lee che fa la morale su smartphone, social media e Intelligenza Artificiale -, spesso pare che lo script sia stato lasciato volutamente acerbo per dare spazio di improvvisazione all’ex Equalizer (sempre di jazz si parla).
Denzel indossa una impenetrabile corazza di carisma per 2 ore e 13 minuti, niente può distrarlo dal tenere insieme il film e sollevarlo in stratosfera. Solo lui potrebbe riuscire a portarsi a casa una scena di introspezione in cui fa shadow boxing chiedendo consiglio a un wall of fame che vede Stevie Wonder, Jimi Hendrix e Aretha Franklin tra i numi tutelari.
Oddio, ci sarebbe anche James Brown, uno che probabilmente gli avrebbe consigliato di tenersi i soldi.
Old man on fire yelling at Cloud computing
A rubargli un po’ di lustro c’è un gigantesco Jeffrey Wright, nel ruolo dell’autista di King. Il suo Paul Cristopher si mangia il predecessore kurosawiano – deferentissimo e masochista – con un indomabile ex-galeotto dalla gratitudine ampia e dalla pazienza piccola. È lui lo stoico parafulmine di una polizia onnipresente, cafonissima e totalmente inutile (altro elemento in netto contrasto con l’originale). Wright è la locomotiva nascosta del film. È quello così sintonizzato con King da far partire, letteralmente, il trionfale theme tune al momento giusto.
Come David King, o come un Black Panther anemico, Spike Lee ha chiesto consiglio agli antenati, e lo spirito bluastro di Akira Kurosawa (da qui, l’Uomo del Giappone) ha risposto. Il paladino di Brooklyn ne ha tratto principio e ispirazione e ha ritrovato in sé… la Fame.
Highest 2 Lowest ha due delle più voraci sequenze della carriera del regista – robe che dovrebbero farci quegli Instagram Reels di cinema pieni di aggettivi grossi e giudizi incontestabili di cartapesta.
La scena della consegna del riscatto è Lee che stacca un pezzo di sè e lo offre come transustanziazione dell’essere newyorkesi – e dell’essere cineasti a New York.
C’è tutto.
Il suo double dolly shot d’ordinanza. Denzel Washington in tuta che cede il posto alle vecchiette. L’effetto stroboscopico del destino in 16mm perchè la subway esiste solo in 16mm (e probabilmente la vita). La comunità portoricana in festa (l’unica bandiera degna di essere filmata wink wink). Il baseball. O meglio, l’essere tifosi di baseball e specificamente essere tifosi degli Yankees e quindi essere orgogliosi di essere Newyorkesi perchè essere newyorkesi è la cosa migliore al mondo e tutto il resto fa schifo.
In particolare Boston.
Akira funesta.
Nell’altra sequenza, Lee fa un passo indietro. Lascia Washington e il suo antagonista – un rapper di professione, A$AP Rocky, che si mostra poco ma sfoggiando possente sicumera – mangiarsi la faccia a colpi di dissing e free-style mastodontici, in un duello verbale che in mano ad altri sarebbe stato da scucchiaiarsi via gli occhi dalle orbite.
Questa Fame, però, avremmo dovuto intuirla già dall’apertura. Lì Norm Lewis canta Oh what a beautiful mornin’ sulle gloriose immagini dello skyline newyorkese, già gioiosamente satollo, non larger than life come l’apertura di Manhattan di Gershwin/Allen, ma larger than yourself – come svegliarsi la mattina a intestino vuoto ed ego rinvigorito, perchè così si sentono Spike e King.
La camera sorvola sull’East River, ma torna di continuo a un attico così “in faccia”, che domina persino il ponte di Brooklyn. Là dove Kurosawa apriva con una jazz score grigia sui sobborghi di Tokyo visti dall’interno della casa stessa, Spike ci dice che tutti gli occhi della città finiranno su King. E su se stesso.
Quest’oscuro scrutare del pubblico è forse lo scarto più riuscito di questa nuova versione. Già per Uomo-del-Giappone Kurosawa, la percezione dell’opinione pubblica (prima e dopo il dilemma del pagamento del riscatto) era una considerazione cruciale: ancora di più, aiutava a riflettere sul concetto di sacrificio a fin di bene eminentemente giapponese, e come l’espansione delle logiche americane e capitaliste stessero diluendo persino quel caposaldo. Quel Giappone, dove l’integrità si dimostrava con le azioni, andava compromettendosi. Ogni ricompensa era grasso che cola.
Highest 2 Lowest riprende il tema e lo trasforma in un’ossessione rivelatoria, nutrita a colpi di social ed headline di tabloid di mezza tacca. Il villain – si chiama Young Felon, d’altronde – lo rivela chiaramente: in un mondo in cui il valore si misura in visibilità e nella rapidità con cui questa si monetizza, ogni intenzione artistica diventa succube di quella stessa logica. L’integrità viene dopo l’ambizione.
Allo stesso modo, Denzel, King, Lee hanno svolto al millimetro la missione – hanno ascoltato il passato, aperto le orecchie al futuro, mettendo da parte la visibilità predatoria e trasformando l’ambizione in riconnessione alle proprie radici.
Tornando back to basics, reclamano la Fame e integrità che meritano dopo essersi abbeverati alla fonte. Tornando a sé, si ritrova il proprio Giappone.
E tuttàvia…
Come sappiamo noi calcisti, per ogni Giappone c’è sempre qualche kaiju al largo.
Forse A24. Forse Netflix. Forse Apple.
Forse una nuova creatura a base di auto-compiacimento.
Per me è Amen.
DVD-quote:
«La vita è una lotta spalla a spalla, ma Spike Lee ha trovato in sé il Giappone.»
Dredd Astaire – i400calci.com