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Cosa pensa l’americano medio di Donald Trump? È la domanda che mi sento rivolgere più spesso durante questo mio breve soggiorno di semi-vacanza (molto lavorativa) in Italia.



















































Mi tocca essere noioso o pedante ma comincio sempre con alcune obiezioni e precisazioni. All’interlocutore chiedo a mia volta: tu sei l’italiano medio? Ti riconosci in questa descrizione? Esiste, un italiano medio? Non credo proprio. 

In America siamo 340 milioni. Togliamo pure i bambini, siamo sempre parecchi. Sparpagliati su un territorio così vasto che contiene nove fusi orari. Solo per andare da New York, dove abito, alla California dove abita mia figlia, ci metto sei ore di volo. E ci sono distanze ancora più lunghe: poniamo dal Vermont alle Hawaii o dalla Florida all’Alaska. In Europa è impossibile volare per sei ore consecutive senza trovarsi già in un altro continente. 

Al dato geografico/demografico aggiungiamoci le diversità ancora più importanti: etniche, culturali, socio-economiche. 

Poi dal punto di vista politico gli Stati Uniti sono divisi, polarizzati, o peggio lacerati, almeno dagli anni Sessanta (potrei risalire più indietro: alla guerra civile dell’Ottocento). A tal punto che nei sondaggi perfino a una domanda neutrale del tipo «secondo te in che stato è l’economia», spesso la risposta che si riceve è influenzata dall’appartenenza politica: un repubblicano tende a essere pessimista quando c’è un democratico alla Casa Bianca, e viceversa. 

Fatte tutte queste premesse aggiungo al mio interlocutore il consiglio di non fidarsi a occhi chiusi di quei media Usa che un tempo erano autorevoli, affidabili, e si sforzavano di raggiungere una certa imparzialità: quel mondo è scomparso da tempo, oggi i media sono tutti schieratissimi, leggerli è indispensabile ma bisogna anche «decifrarli». Postilla finale: non fidatevi neppure dei turisti americani che incontrate in Italia e a cui chiedete un parere; se non sono totalmente ingenui e sprovveduti sanno che Trump qui non è popolare e quindi si adeguano, vi danno delle risposte diplomatiche, adattate a quello che volete sentirvi dire.

Fatte tutte queste precisazioni, rispondo così. Poiché non esiste un americano medio, dobbiamo rassegnarci a usare come sostituto «una media degli americani», che è quello che cercano di fare – più male che bene – i sondaggi. Dunque parliamo pure di medie statistiche, a condizione di sapere che non è la stessa cosa fare una media fra i diversissimi americani o incontrare il mitico «americano medio» (termine che in genere gli italiani, oserei dire gli europei, pronunciano con una smorfia di disprezzo).

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Le ultimissime notizie su quel che pensa la media degli americani le ricavo dal più recente sondaggio del Wall Street Journal. Viene fuori che sta migliorando il loro giudizio sulla situazione economica e quindi non bocciano Trump in modo netto, a differenza di quanto molti italiani si aspettano (o auspicano). Attenzione, comunque Trump arriva a stento a lambire la metà dei consensi: una situazione a cui lui è abituato, direi abbonato, perché in tutto il suo primo mandato lui restò sempre al di sotto del 50% (non un caso unico: accadde la stessa cosa al suo successore Joe Biden). Eccovi un breve estratto dal sondaggio in questione, riassunto e analizzato dallo stesso quotidiano:

Sostenuto da un miglioramento nella percezione dell’economia da parte degli elettori, il consenso politico del presidente Trump mostra una notevole resilienza, secondo un nuovo sondaggio del Wall Street Journal, nonostante l’impopolarità della manovra finanziaria su tasse e spesa pubblica, il malcontento per i dazi e il sospetto che il governo stia nascondendo informazioni importanti su Jeffrey Epstein.

L’insieme degli eventi turbolenti recenti — che include anche il programma aggressivo di espulsioni di immigrati illegali da parte dell’Amministrazione e il bombardamento di siti nucleari iraniani — non ha né peggiorato né migliorato la visione complessiva del pubblico sul presidente. Il 46% approva il suo operato, una percentuale invariata rispetto ad aprile, mentre il 52% disapprova.
Il sondaggio mostra perché il sostegno quasi incrollabile della base repubblicana sia così prezioso per Trump. Con l’88% degli elettori del Grand Old Party che approva il suo operato — e il 66% che lo approva molto — Trump è riuscito a mantenere una certa forza politica al Congresso e tra gran parte dell’elettorato, anche quando l’opinione pubblica generale è insoddisfatta della direzione in cui sta andando il paese e disapprova la gestione da parte del presidente dell’economia, dell’inflazione, dei dazi e di altri aspetti della sua agenda.

La maggioranza, pari al 52%, si oppone al principale risultato legislativo di Trump, la legge di bilancio approvata dal Congresso, con un divario di 10 punti rispetto a chi la sostiene. Più elettori disapprovano che approvano la sua gestione dell’economia e dell’inflazione, rispettivamente con uno scarto di 9 e 11 punti. La disapprovazione per i dazi supera l’approvazione di 17 punti. Anche sull’immigrazione — il tema simbolo di Trump — gli elettori gli attribuiscono giudizi tiepidi: con margini ristretti di 3 punti o meno, disapprovano la sua gestione della “immigrazione” in generale, mentre approvano quella dell’“immigrazione illegale”. Per quanto riguarda la direzione del paese, gli elettori pessimisti superano gli ottimisti di 16 punti, in aumento rispetto al divario di 10 punti rilevato ad aprile. Tuttavia, gli elettori distinguono tra la direzione generale del paese sotto Trump e l’andamento dell’economia, sulla quale il sondaggio rileva un miglioramento nelle prospettive. Il 47% degli intervistati ha valutato l’economia come “eccellente” o “buona” — un salto significativo di 11 punti rispetto ad aprile, e la valutazione più positiva registrata nei sondaggi del Wall Street Journal dal 2021. Il 51% ha descritto l’economia come “non buona” o “cattiva”, in calo rispetto al 63% di aprile. Per quanto riguarda le prospettive, gli elettori pessimisti sull’economia superano gli ottimisti di 8 punti — un dato ancora negativo, ma molto migliorato rispetto al divario di 26 punti registrato ad aprile. Inoltre, meno persone affermano che l’inflazione stia causando loro gravi difficoltà finanziarie.
Qui si conclude la sintesi del sondaggio. I neretti sono miei, per sottolineare gli aspetti più sorprendenti. Per spiegare l’ultimo paradosso – una maggioranza di americani sono contrari ai dazi, però il pessimismo sull’inflazione si sta riducendo – bisogna chiamare in causa altre analisi e spiegazioni. Chi sta pagando i dazi, letteralmente e materialmente? Le indagini disponibili al momento ci dicono che l’onere di queste tasse doganali viene suddiviso tra due categorie di imprese: quelle straniere che esportano, e quelle americane che importano. Il dosaggio e bilanciamento può variare molto, da settore a settore e da impresa a impresa; in generale però sono le imprese che accettano di sacrificare margini di profitto, per adesso, e si sobbarcano queste tasse doganali, pur di non alzare i prezzi finali. Questo attutisce l’impatto sui consumatori, pressoché invisibile come si evince dai dati sull’inflazione. Questo corregge anche l’idea che il segno complessivo della politica trumpiana sia anti-popolare, anti-operaio, redistributivo alla rovescia cioè in favore del grande capitale. Almeno fino a quando le imprese sono i principali «contribuenti dei dazi», questo significa che il protezionismo sta tassando loro. Vedremo fino a che punto gli esportatori cinesi o europei e gli importatori americani vorranno continuare a incassare il danno. Per adesso questo aiuta a capire il sondaggio.

Concludo tornando al concetto di «americano medio», con una postilla. Spesso m’imbatto in Italia in pregiudizi autenticamente «razzisti»: interlocutori che danno per scontato un ritratto dell’americano medio fatto di crassa ignoranza, provincialismo, razzismo. Poi magari gli stessi interlocutori italiani hanno figli o figlie, o nipoti, che studiano nelle università americane e là hanno docenti venuti da tutto il mondo. Per oltre un secolo l’America è stata un polo di attrazione dei cervelli europei, molti dei suoi Premi Nobel sono nati all’estero, le sue classi dirigenti e le sue élites sono le più multietniche e cosmopolite, l’establishment ha cooptato talenti dal mondo intero, però «gli americani» continuano a rimanere per molti italiani un popolo becero e praticamente analfabeta. Nonostante che gli indici di lettura di libri siano molto più elevati negli Stati Uniti rispetto all’Italia.

Altri stereotipi, pregiudizi e luoghi comuni, descrivono l’America come il «Far West del capitalismo selvaggio». Avercene, un po’ di quel Far West… Sul Corriere della Sera di ieri leggo: «Ocse, i salari reali in Italia sono scesi del 7,5% dal 2021: il risultato peggiore tra i paesi avanzati». Il divario sempre più abissale che separa i redditi degli italiani da quelli degli americani – e continua ad alimentare l’esodo di giovani dal nostro paese – forse non sarebbe così spaventoso se l’Italia avesse un po’ meno pregiudizi contro l’impresa privata, l’economia di mercato (o il capitalismo, che è la stessa cosa)… Ricordo poi che la superiore performance dell’economia Usa è un dato strutturale, di lungo periodo, poco influenzato dal colore politico del presidente di turno. L’America ha inflitto distacchi crescenti all’Europa lungo un arco di tempo in cui è stata governata rispettivamente da Clinton, Bush, Obama, Trump, Biden, Trump. Il diavolo e l’acqua santa, il bianco e il nero, il rosso il giallo il verde, ne abbiamo viste di tutti i colori. Intanto l’America andava su, l’Europa restava ferma. 

La politica Usa quindi c’entra abbastanza poco, bisognerebbe guardare invece cosa c’è dentro gli ingranaggi di funzionamento del cosiddetto «Far West», anziché cullarsi nelle caricature e crogiuolarsi nei sentimenti di superiorità verso «l’americano medio».  

26 luglio 2025, 13:12 – modifica il 26 luglio 2025 | 16:01